L’idolo d’avorio

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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 1“]Prima Parte

Adrian si svegliò di colpo, drizzandosi a sedere. La mano corse al fianco, pronta a estrarre il machete che vi teneva assicurato. Per un attimo fu incapace di capire dove si trovasse o perché, prima che gli ultimi strascichi del sogno si dileguassero e ciò che lo circondava assumesse un contorno più nitido.
Si lasciò cadere sulla schiena con un sospiro. Gli occhi gli bruciavano, il collo gli doleva e i piedi erano roventi. Aveva dormito con gli scarponi, perché altrimenti era probabile si rompessero, dato che ormai gli strati di spago che li tenevano insieme avevano superato in quantità la pelle che li componeva.
Il machete, invece, voleva fosse subito a portata di mano, quindi non lo sganciava dalla cinta nemmeno per dormire. Se avesse lasciato la propria arma al proprio fianco o tra i piedi qualcuno avrebbe potuto sottrargliela mentre dormiva e usarla contro di lui. Contro di loro.
Si voltò a guardare Rachel, rannicchiata sotto la coperta lacera in posizione fetale. I capelli neri le erano scivolati sul viso mentre dormiva e lenti respiri gonfiavano e sgonfiavano quel bozzolo con regolarità. Una mano piccola e magra spuntava dalla coperta col palmo rivolto verso l’alto, le dita leggermente incurvate verso l’interno, le unghie rosicchiate e spezzate, sporche, le nocche spellate.
Tornò a osservare il soffitto dell’automobile in cui avevano dormito, rugginoso e umido, e ripensò al sogno. L’aveva fatto ancora. Di nuovo lo stesso.
Si trovava in un grande edificio – non era in grado di dire di che tipo – forse una fabbrica abbandonata o qualcosa di simile, e tutto intorno a lui vi erano corpi senza vita in pose grottesche. Alcuni erano appesi al soffitto per i polsi o impiccati, altri assicurati alle pareti con ganci, altri ancora aggrovigliati a terra in posizioni innaturali, le costole in rilievo, gli arti spezzati. C’erano grandi casse qua e là, nastri trasportatori ormai fermi, uncini che pendevano dal soffitto con lunghe catene come code. E là, sopra un cumulo di cadaveri putrefatti, c’era lui, l’uomo che ossessionava da settimane i suoi sogni.
Si trattava di un nero enorme, alto forse più di due metri e incredibilmente muscoloso, il petto nudo dagli addominali scolpiti e dai pettorali scultorei, le braccia lucide di sudore quasi irreali nella definizione dei muscoli. La sua pelle era di un nero talmente intenso da parere una macchia di oscurità nella luce che gli proveniva da dietro le spalle, un baluginio danzante di qualcosa in fiamme, e occhi altrettanto oscuri lo fissavano da cornee gialle, animaleschi. In testa non aveva un solo capello e il cranio lucido era illuminato dalle fiamme.
L’uomo nero avanzava di un passo, mettendo un piede sopra a un teschio e sfondandolo col suo solo peso e apriva la bocca per sorridere, mettendo in mostra denti aguzzi come quelli di un lupo. Irrazionalmente Adrian notava quanto fosse rosso l’interno della sua bocca, come fossero sanguigne le sue labbra mentre le distendeva in un sorriso che non era quello da rivolgersi a un amico, ma a una preda chiusa in un angolo.
Solo in quel momento notava che il nero stringeva in mano qualcosa, una cosa informe e stracciata che, però, lui riconosceva a prima vista: era la maglietta di Rachel, quella azzurra con disegnato il muso di un gatto, la preferita della bambina. Allora Adrian cominciava a urlare e correva verso il nero, il machete in mano, e l’uomo sorrideva ancora di più, crescendo man mano che gli si avvicinava, come un monte che sembra sempre ugualmente distante.
A quel punto si svegliava sempre, stordito e impaurito. Un paio di volte, quando aveva aperto gli occhi, si era già ritrovato con il machete in mano.
Adrian non sapeva se l’uomo che sognava ripetutamente esistesse realmente o meno, anche se gli sembrava improbabile che potesse esserci una persona simile al mondo, ma soprattutto non capiva da dove arrivassero quelle immagini.
Quando vi era stato il Disastro e lui era sopravvissuto, aveva sognato il Nord. Ma era stato diverso. Quel sogno era durato per alcuni giorni ed era rimasto vivido nella sua mente al risveglio come l’immagine di un film appena visto. Non aveva provato alcun disagio durante quell’esperienza, anzi, era a suo modo rassicurante. Ma l’uomo nero era diverso.
Era qualcosa di terrificante, qualcosa di innaturale che non poteva essere combattuto, e quando si svegliava il ricordo permaneva solo per alcuni minuti. Le immagini cominciavano a essere già sbiadite nella sua mente e, tempo un’ora, le avrebbe dimenticate completamente, per poi riconoscerle come già viste al sonno successivo.
Scacciò quei pensieri e gettò un’occhiata fuori dall’automobile, nella grigia luce del mattino.
Le sagome dei palazzi intorno a loro risplendevano fiocamente. La maggior parte dei vetri rotti li facevano apparire come vecchi sdentati, il colore delle facciate diroccate irrimediabilmente sbiadito e scrostato. Lunghi viticci di rampicanti, come serpi tentacolari, strisciavano su di ogni cosa, suggendo l’umidità dalle pareti come vampiri e sgretolando il cemento come polvere priva di ogni forza. In pochi decenni tutti quegli edifici, scampati alla pioggia di fuoco, ai terremoti e alle inondazioni sarebbero crollati miseramente su loro stessi, impotenti di fronte alla feroce rivalsa della natura sul mondo artificiale dell’uomo.
Era passata oramai una settimana da quando aveva sognato il Nord. Come si poteva descrivere con un’immagine un punto cardinale? Non lo sapeva, eppure era certo che quello fosse il soggetto. Era ciò che gli rimaneva nella mente al risveglio.
Aveva raccolto i suoi pochi averi in uno zaino capiente, se lo era messo in spalla e, presa Rachel per mano, si era diretto verso Nord. Non sapeva cosa li aspettasse là, né fin dove avrebbero dovuto camminare, ma aveva un buon presentimento. Per la prima volta da anni, sentiva che qualcosa di buono c’era, che se un futuro sarebbe mai stato possibile era là, a Nord.
Un gatto passeggiò con altezzosità sul cofano dell’automobile, guardandolo indifferente con gli occhi gialli, e saltò con grazia sul tetto di un furgoncino alla loro destra.
Adrian brontolò. Quei maledetti gatti erano ovunque, riuscivano sempre a trovare qualcosa da mangiare in giro e non parevano più spaventati del normale dagli esseri umani. In momenti disperati ne aveva anche ucciso e mangiato qualcuno, dicendo a Rachel che erano un po’ come i conigli – la bambina, che avrebbe compiuto dieci anni a breve, non ne aveva mai visto uno – ma l’abitudine a considerarli animali domestici più che cibo era profondamente radicata in lui e, se non era proprio necessario, preferiva evitarlo. Certo non tutti si facevano i suoi stessi problemi, ma a quanto pareva i gatti condividevano con i conigli anche la fertilità, perché in giro se ne trovavano sempre in gran quantità. Il problema era catturarli.
Posò una mano callosa e annerita sul bozzolo dormiente e lo scosse leggermente.
«Rachel? Rachel! Svegliati amor mio, è ora di andare.»
Un gemito assonnato accolse il suo tentativo, ma non ottenne di più.
La scosse di nuovo, un po’ più energicamente, ma non ottenne un risultato migliore.
«Raaaaacheeeel» cantilenò avvicinando la bocca all’orecchio della bambina.
«’ncoa cinque ‘nuti…»
Adrian fece saettare fuori dalla bocca la lingua, sibilando come un serpente e infilandola nell’orecchio di Rachel, che saltò su con un urlo strozzato.
«Papà… che… schifo!» disse con voce impastata dal sonno mentre con la coperta si asciugava vigorosamente l’orecchio.
«Io non ho fatto proprio niente, dolcezza, dev’essere stato quel serpente che sta dietro di te.»
«Cosa…»
Rachel sgranò gli occhi e balzò in piedi, guardandosi freneticamente attorno.
Adrian fece una faccia stupita ed estrasse una striscia di cuoio dal cumulo di coperte in cui aveva dormito la bambina sino a quel momento.
«Oh, scusa, mi sono sbagliato. Era solo la tua cintura.»
«Papà!» ripeté con voce scandalizzata Rachel, ormai del tutto sveglia.
Indossava la sua maglietta col gatto, lisa e scolorita, ma ancora abbastanza chiaramente azzurra e un paio di pantaloncini di tuta lunghi sino al ginocchio, di quelli che si danno ai bambini per giocare all’aperto d’estate. Le gambe scheletriche mostravano una collezione di lividi ed escoriazioni da guinness dei primati, che la malnutrizione non aiutava certo a guarire, e come sempre Adrian provò tristezza a vederla così magra e sporca, troppo piccola e troppo ossuta per la sua età.
«Bisogna che ci mettiamo in marcia, tesoro. Il sole è sorto già da un pezzo.»
Rachel fece una smorfia di disappunto e cominciò a vestirsi, indossando un secondo paio di pantaloni color cachi – di quelli da escursione da quattro soldi dall’aspetto vagamente simile alla plastica, che mal si adattavano ai movimenti del corpo – una felpa con cappuccio e grandi tasche sulla pancia e, infine, un paio di calzini spaiati con le punte delle dita tutte bucate e scarponcini da escursione giallo canarino, con le suole assicurate alla scarpa da più strati di nastro americano.
Adrian, che aveva dormito come al solito con i jeans consunti e squarciati addosso, indossò sulla canottiera ingiallita una giacca militare dalle tasche stracolme di ogni stravaganza, afferrò lo zaino con una mano e vi infilò la sua coperta e quella della figlia con forza. Uscì quindi dall’automobile, che aveva miracolosamente tutti i finestrini integri e il parabrezza solo costellato da una miriade di piccole crepe, si stirò dolorosamente braccia, schiena e collo e infilò lo zaino in spalla.
L’aria fredda del mattino gli scivolò attraverso le innumerevoli aperture nei pantaloni e – come sempre gli accadeva in quei frangenti – pensò con ironia che sino a trent’anni prima i jeans li avevano venduti già squarciati, per moda.
Fortunatamente erano in Aprile, ormai l’inverno si era ritirato e la temperatura era abbastanza gradevole anche con quel vestiario inadatto alla stagione. Camminando, a ogni modo, si sarebbero riscaldati.
«Papà, ho fame.»
Adrian sorrise amaramente.
«Lo so, tesoro, ma abbiamo finito le scorte. Vediamo di trovare qualcosa strada facendo, eh?»
Rachel storse la bocca, ma non disse niente. Saltare il pasto era la regola, non l’eccezione.
Discesero la strada lungo la quale erano saliti la sera prima, passando tra le erbacce alte e rigogliose e stando attenti a non inciampare nelle larghe e profonde crepe dell’asfalto. Gli uccelli cantavano volando da un ramo all’altro e da un cornicione all’altro, i gatti facevano loro la posta con paziente e viva attenzione. In quegli anni la vegetazione si era insediata con forza nelle città, spaccando le strade e invadendo i palazzi e numerosi alberi erano cresciuti un po’ ovunque tra le erbacce, schiantando con le potenti radici piastrelle, asfalto, tombini, tutto ciò che li ostacolava.
Una parte consistente della città era perennemente allagata non solo a causa dell’innalzamento delle acque, ma anche perché nessuno puliva più i canali di scolo, il letto dei torrenti e gli innumerevoli sistemi di drenaggio tipici di un insediamento situato in un avvallamento. L’acqua non era particolarmente alta, ma era stagnante e puzzolente e poteva ospitare inquilini scorbutici come serpenti e, forse, addirittura coccodrilli. Nessuno sapeva se questi ultimi fossero emersi dalle fogne in cui si diceva già precedentemente vivessero – Adrian riteneva si trattasse di leggende metropolitane da quattro soldi – o provenissero, superstiti, dagli zoo delle città, ma erano abbastanza diffusi e si erano abituati piuttosto bene al nuovo habitat.
Il modo di agire più prudente sarebbe stato aggirare la città con calma, tenendosi sul terreno più rialzato che la circondava, lontani dall’acqua e rimanendo coi piedi sulla terra asciutta. Questo avrebbe però richiesto diversi giorni di marcia in più e loro erano senza provviste. Tra gli edifici avrebbero forse potuto trovare qualcosa di commestibile e, comunque, tagliando attraverso la città avrebbero risparmiato tempo ed energie preziose.
Discesero così la strada sino al limitare dell’acqua e vennero accolti da un odore dolciastro e spiacevole, che prendeva la gola. Canne e altre piante acquatiche, abbracciando il calore di una nuova imminente estate, crescevano rigogliose sul liquido brunastro e melmoso, immobile, attraversato da nugoli di insetti galleggianti e volanti. Lungo il bordo di quella grande laguna c’era uno spesso bordo verdastro di alghe dall’aspetto viscido e si potevano scorgere qua e là sacchetti di plastica, confezioni non deperibili dei più svariati prodotti da supermercato e una miscellanea di oggetti che andava dalle custodie dei dvd, alle borsette da pochi spiccioli e agli impermeabili dai colori sgargianti incrostati di putredine.
Adrian si levò lo zaino di spalla e lo posò a terra, aprendolo ed estraendone le coperte appallottolate con malagrazia.
«Papà, dobbiamo proprio andare in mezzo a quella roba?» chiese Rachel con voce piagnucolosa.
Lui grugnì qualcosa, rovistando tra i loro scarsi averi.
«Eh?» insistette lei.
«Ho detto che dobbiamo, se vogliamo trovare qualcosa da mangiare.»
Rachel guardò l’acqua scura e immobile, simile a petrolio diluito.
«Non ho poi così tanta fame…»
«Non importa,» replicò Adrian con la fronte aggrottata, continuando a rovistare, «non possiamo comunque permetterci di fare il giro lungo senza niente da mettere sotto i denti. Siamo anche a corto di acqua e camminare fa sudare, bisogna bere.»
«Ma…»
Adrian alzò la testa di scatto.
«Niente ma, signorinella. Passeremo attraverso la città, punto e basta.»
Rachel tacque.
Il volto di Adrian si ammorbidì un poco.
«Non preoccuparti, è tutto a posto. È solo un po’ d’acqua sporca. Ti prometto che quando comincerà a farsi buio troveremo un posto asciutto e sicuro bello sopraelevato.»
Il broncio rimase stampato sul volto della bambina, ma annuì comunque.
«Ok.»
«Bene. Ora, ecco qua.»
Teneva in mano due paia di stivali piegati con forza in due in modo da occupare il minor spazio possibile. Il primo era rosso e consumato, pieno di graffi, di una dimensione adatta a un uomo adulto, mentre il secondo era di un rosa stinto e decisamente più piccolo. Troppo piccolo, per la verità, perché nonostante la malnutrizione Rachel stava crescendo e, nell’ultimo periodo, si era lamentata che le stringevano i piedi. Avrebbero dovuto procurarsene un paio più grandi.
Si sfilarono entrambi gli scarponi con cautela, attenti a non strappare il filo e il nastro adesivo che ancora li tenevano insieme, e li misero in un sacchetto di plastica. Infilarono quindi gli stivali ai piedi e Adrian diede il sacchetto da tenere in mano a Rachel, dato che gli scarponi erano troppo grandi e consunti per stare nello zaino.
Rachel gli tese la mano sinistra e lui la prese, tenendola saldamente, quindi entrarono con cautela in acqua.
Il fondale era scivoloso ma regolare e con un po’ di cautela si poteva camminare con una certa disinvoltura, prestando però attenzione a non mettere i piedi in fallo. L’acqua arrivava solo poco al di sopra della caviglia, troppo bassa per ospitare animali come i coccodrilli, fortunatamente.
Si avviarono tra le canne e le carcasse delle auto arrugginite, invase dalle piante e dagli insetti, i pneumatici così sgonfi da lasciar toccare terra ai paraurti, creando l’illusione di un livello della laguna decisamente più alto.
I palazzi attorno a loro erano ancora in piedi, anche se presentavano qua e là cedimenti strutturali piuttosto evidenti, e alcune delle finestre erano ancora integre. La maggior parte delle porte e dei portoni erano aperti o sfondati e l’acqua ne aveva invaso il piano terreno e gli scantinati ed era presumibile, come quasi sempre in precedenza, che fossero stati minuziosamente setacciati uno a uno negli ultimi anni, cedendo ogni loro possibile ricchezza a un numero imprecisato di viandanti bisognosi.
Oltrepassarono una serie di negozi, dalle cui insegne e vetrine parzialmente intatte era ancora possibile intuire cosa avessero avuto in vendita: un noleggio di film e videogiochi, un negozio di cappelli, un parrucchiere, un bar, un negozio di abbigliamento, un altro parrucchiere, una tavola calda, un’agenzia di viaggi, lo studio di qualche professionista, un altro bar.
A un negozio di scarpe si fermarono ed entrarono, illuminati alle spalle dal sole che faceva capolino tra le cime dei palazzi, ma le poche calzature che non fossero già state prese erano spaiate e corrose dall’umidità, inutilizzabili.
Camminarono così per un paio d’ore, visitando ogni tanto qualche negozio senza mai trovare nulla, oltrepassando diversi quartieri popolari e alcune strade composte esclusivamente da negozi, accostando persino un parco che, lasciato a se stesso, assomigliava più a una giungla per scimmie e giaguari che a un prato alberato per anatre e bambini.
L’acqua era salita di qualche centimetro mentre avanzavano, raggiungendo circa la metà del polpaccio di Adrian, ma gli stivali erano alti e la cosa non lo preoccupava. Anche Rachel aveva ancora i piedi all’asciutto, sebbene l’acqua lambisse più da vicino le sue gambe, e la marcia non era eccessivamente faticosa. Un paio di volte erano quasi inciampati in oggetti sommersi, ma erano riusciti a non cadere mai a faccia in giù nell’acqua puzzolente.
Mentre camminavano, per ingannare il tempo e distrarre la figlia dai crampi allo stomaco e il male a gambe e piedi per la marcia interminabile a cui si sottoponevano, le raccontava ciò che sapeva di storia, medicina e letteratura, approfittandone anche per darle un minimo di istruzione. Aveva provato a portare con sé dei libri con i quali rinfrescarsi la memoria, ma da un lato erano oggetti che avevano molto sofferto il crollo della civiltà ed erano quasi sempre impregnati a tal punto d’acqua da risultare estremamente gonfi e dalle pagine incollate, bruciati o mangiati dai topi. Dall’altra erano estremamente pesanti e ingombranti, decisamente sconsigliati come bagaglio in frangenti come quelli.
Così Adrian parlava un giorno del nazismo, uno delle civiltà precolombiane, poi di come funzioni il cuore, di cosa sia la penicillina, della triste vita di Oliver Twist, dei dilemmi del giovane Holden che andava bene solo d’inglese e del potente e misterioso mago di Oz. Non era mai stato bravo nelle materie scientifiche e di conseguenza non si era mai azzardato a spiegare a Rachel matematica, fisica e chimica, ma pensava che la bambina ne avrebbe potuto far tranquillamente a meno. Aveva una superficiale conoscenza di astronomia e qualche nozione di medicina da sala d’attesa, acquisita leggendo riviste mentre aspettava di essere visitato da qualche dottore, ma niente di più.
Quel giorno le stava spiegando per sommi capi quali pianeti facessero parte del sistema solare e quali fossero le loro caratteristiche principali.
«Allora, ti ricordi già i pianeti in ordine?»
«Dal Sole verso fuori?»
«Certo.»
«Allora… il primo è Mercurio.»
«Esatto, esatto. E qual è la sua caratteristica principale?»
«Bé, ecco…» rispose lei stringendo le labbra nell’indecisione.
«Non è difficile. Ragionaci su. È il più vicino di tutti al Sole, quindi…»
«Quindi… sarà molto caldo?»
«Esattamente. Non solo sarà molto caldo, ma sarà il più caldo di tutti i pianeti del sistema, non credi?»
«Sì, certo.»
«Bene. Poi?»
«Poi c’è la Terra.»
Adrian alzò un indice, le sopracciglia sollevate.
«Volevo dire Venere…»
«Ah, mi pareva d’aver sentito qualcos’altro.»
«No, no.»
«Bene. Venere è un po’ più lontano dal Sole, ma è comunque molto caldo come pianeta. Se non fosse così caldo, potremmo abitarlo?»
«No!» rispose con convinzione Rachel, «perché nell’aria ci sono tanti veleni e non si potrebbe respirare.»
«Proprio così. Che veleno c’è, per esempio?»
«La candeggina?»
Adrian rise, dandole una strizzatina alla mano.
«Ahia!»
«Non la candeggina, l’ammoniaca!»
«Ah. Quasi, no? È sempre una cosa per pulire, giusto?»
«Certo, questo è vero.»
«Quindi Venere è un pianeta molto pulito.»
Adrian sorrise.
«Potrebbe anche essere molto pulito, ma ci sono cose che non permettono la vita se presenti in grande quantità nell’aria, nell’acqua e nella terra. L’ammoniaca è una di queste cose.»
Rachel stette in silenzio per un po’.
«Anche nella nostra aria ci sono dei veleni» disse infine.
Adrian sospirò.
«Sì tesoro, ci sono, e anche peggiori dell’ammoniaca. Per fortuna c’è molta più aria respirabile che polveri e radiazioni, quindi possiamo continuare a vivere. Da un certo punto di vista, l’aria è più pulita ora che quando andava tutto bene.»
«Ma tu mi hai detto che quando c’è stato il Disastro tanto inquinamento è salito in aria, tante cose velenose, e che il vento le porta in giro, dappertutto.»
«Sì, infatti è così. Ma devi capire che quando c’è stato il Disastro le persone erano moltissime, più di sette miliardi. La maggior parte di queste persone andavano in giro in macchine a benzina, a gasolio o, nella migliore delle ipotesi, a metano, anche se da diversi anni erano disponibili vetture con motori a idrogeno e ad aria compressa. Le abitudini sono dure a morire e ancora i veicoli non inquinanti non erano diventati di moda. E tutte le auto a benzina, a gasolio o a gas stavano accese un sacco di tempo e se erano accese bruciavano combustibile. Cos’è il combustibile, Rachel?»
«Una cosa che si brucia per avere energia.»
«Qualunque tipo di energia. La legna è il combustile di un falò, perché bruciando produce il caldo con cui cuocere da mangiare o tenere lontano il freddo, e il caldo è un tipo di energia. A ogni modo, ogni secondo che questi veicoli erano accesi bruciavano combustibile. Ma quando la legna brucia fa un sacco di fumo nero e puzzolente, che non si può respirare. Anche la benzina lo fa e l’aria di tutto il mondo era piena di questo fumo. Poi c’erano le fabbriche, che facevano fumo come migliaia di macchine messe assieme. Adesso che tutte queste cose sono spente da anni, l’aria non è più piena di fumo, si respira meglio e fa venire meno malattie.»
Lei annuì con espressione solenne.
«Ho capito.»
Adrian sorrise di nuovo.
«Dopo Venere cosa c’è?»
«La Terra!»
«E quella la conosciamo.»
«Sì, la conosciamo. E dopo la Terra c’è Marte.»
«Come viene anche chiamato Marte?»
«Il pianeta rosso!»
«Perché?»
«Perché è tutto rosso, papà! Non mi prendere in giro.»
«Dai che scherzo. Te le ricordi proprio bene queste cose.»
Lei sorrise e arrossì leggermente.
Stava per dire qualcosa quando una risata stentorea rimbalzò tra i palazzi, spezzando il silenzio accompagnato solo dallo sciaguattare dei loro piedi nell’acqua.
Repentino, Adrian lasciò la mano della figlia e le premette la propria sulla bocca, afferrandola con l’altra per un braccio e trascinandola dietro alla carcassa di un’automobile. Si abbassarono e lui le fece cenno di tacere, quindi le tolse la mano dalla bocca.
Lei lo osservò con gli occhi grigi spaventati, trattenendo il respiro.
Un forte rumore di acqua smossa li raggiunse poco dopo, accompagnato dal suono di alcune voci che parlavano a volume incredibilmente alto.
Ad Adrian la cosa non piacque. Quando degli uomini si comportavano in quella maniera, aggirandosi rumorosamente tra le rovine come se non temessero alcunché, poteva significare che erano armati e pericolosi, magari schiavisti, forse cannibali.
«Cazzo, Rick, è la più grossa stronzata che ti abbia mai sentito dire. Negli ultimi dieci minuti, intendo!» disse la prima voce, ripetendo la risata udita poco prima.
«Te lo giuro, Matt, lo giuro su mia madre. Tre ore filate, senza pause!»
La seconda voce era stranamente acuta per un uomo, quasi isterica, vagamente lamentosa.
«Certo, tu ti saresti chiavato una biondona per tre ore senza interruzioni. Lo sai cosa mi fa più ridere di questa stronzata? Che una ci sia stata con te, non che te la sia chiavata per tre ore!»
La prima voce rise di nuovo sguaiatamente, coprendo le lamentele della seconda.
Una terza si intromise con tono seccato.
«Se non la smettete di fare questo chiasso spaventeremo ogni forma di vita nel raggio di cento chilometri! Abbassate un po’ la voce!»
Si udì il rumore di un raschiare di gola e il suono inconfondibile di qualcuno che sputa.
«Diamine, Qi, come sei sempre marziale. Mi stavo solo divertendo un po’.»
«Trovi divertente girare per questa palude alla ricerca di viandanti, mangiato vivo dalle zanzare, e non trovarne nemmeno uno perché non sei capace di fare un po’ di silenzio?»
«E dai amico, non esagerare, io…»
«Io non sono tuo amico, Matthew. Mettitelo bene in testa. I pezzi grossi ci pagano un tot per un uomo abile al lavoro, un tot per una donna di bell’aspetto. I bambini valgono poco, ma tutto fa brodo. Se ti va di fare scampagnate amichevoli per gli acquitrini con Rick prendendolo per il culo, fallo in un altro momento. Ora abbiamo un lavoro da fare.»
«Ok, ok, non scaldiamoci. Andiamo avanti.»
«Bene.»
Adrian si sporse con estrema lentezza al di sopra della portiera dell’automobile, sbirciando attraverso il varco dove prima si trovava il finestrino anteriore.
Vide tre uomini, due bianchi e un orientale, a non più di cinquanta metri da loro. Uno dei due bianchi era molto basso e magro, con braccia scheletriche e uno zaino spropositatamente grande sulle spalle. Adrian ne dedusse che si trattava della seconda voce, quella insolitamente acuta. Il suo compagno, quello che doveva rispondere al nome di Matt, era un omaccione dal ventre prominente, con qualcosa legato alla schiena di tremendamente simile a un fucile. L’orientale, infine, era poco più alto di Rick e vestito completamente di nero, con al fianco quello che doveva essere un machete.
I cacciatori di schiavi erano abbastanza comuni nelle zone di grande passaggio e sino a quel momento Adrian era riuscito, in un modo o nell’altro, a evitarli. Non gli rimaneva che aspettare e sperare che se ne andassero velocemente per la loro strada.
«Ormai è un pezzo che in questa zona non troviamo carne fresca, Qi. Forse dovremmo cambiare area di caccia per un po’. Questa ormai scotta.»
L’orientale fece un verso sprezzante.
«Se voi due non faceste tanto chiasso ne troveremmo eccome, di carne, come dici tu. Questa mattina ero di vedetta sul tetto del rifugio, con il binocolo, e ho visto due entrare in città.»
Adrian rimase gelato dov’era. Erano stati visti.
Una nota d’interesse animò la voce di Rick.
«Da che parte sono arrivati, Qi? Com’erano?»
«Sono entrati dalla via commerciale settentrionale. Un uomo e una bambina, bianchi. Potrebbero essere i due che cerca Big B.»
Adrian non ebbe il coraggio di sporgersi a guardare ancora ma avrebbe giurato, dal tono di voce di Matt, che si stesse sfregando le mani con una luce avida negli occhi.
«Bene, bene. Ci voleva proprio carne fresca. Quante ore fa è stato?»
«Non più di tre. Ormai dovrebbero essere passati di qui, se procedevano a un buon ritmo. Proseguiamo verso la parte meridionale della città. Dovremmo beccarli all’altezza del quartiere italiano, se ci sbrighiamo.»
«Bene, andiamo. Forza.»
I rumori di passi nell’acqua si allontanarono rapidamente e Adrian si azzardò a spiare di nuovo la strada.
I tre erano ormai piccolissimi e gli davano la schiena, proseguendo per la via che loro avrebbero percorso di lì a un minuto se non li avessero sentiti in tempo.
«Se loro vanno a Sud e provengono da Est, hanno sbagliato tutto. Noi andiamo a Nord. Siamo entrati dalla strada settentrionale, ma perché abbiamo dovuto aggirare quel grosso acquitrino che abbiamo incontrato ieri sera. È probabile che tra un po’, non trovandoci, decidano di percorrere a ritroso la strada su cui si trovano per vedere se siamo più indietro. A quell’ora avremo un bel po’ di vie e palazzi a distanziarci da loro.»
Rachel lo abbracciò stretto.
«Pensi che ce ne siano altri, papà?»
Lui le carezzò la testa, sconsolato.
«Non lo so, tesoro, proprio non lo so. In genere gli schiavisti hanno dei territori di caccia predefiniti, a invadere le zone di altri gruppi andrebbero ad ammazzarsi tra loro, ma bisogna vedere quanto sono numerosi. Speriamo bene.»
Svoltarono a destra, seguendo senza volere uno sbilenco cartello di senso unico e oltrepassarono alcune traverse sino a che l’incrocio in cui avevano visto gli schiavisti non fu indistinguibile dalla macchia di colore generale che fondeva le immagini troppo distanti. A quel punto ripresero a proseguire verso Nord, anche se ora più cautamente: un colpo di fortuna era una cosa tanto rara da non potervi semplicemente passare sopra. Meglio essere cauti per nulla, che incauti e pagarla cara.

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Seconda Parte

Quando le ante da saloon si spalancarono brevemente, per poi rinculare avanti e indietro sempre più lentamente, solo pochi brevi sguardi si sollevarono dai tavoli a osservare il nuovo venuto. Passato quell’istante, tutti tornarono alle proprio occupazioni, fossero esse il bere, il bestemmiare, il tirar freccette a un bersaglio più buchi che tela o il frugare sotto le gonne di donne di malaffare dall’aspetto decisamente sgradevole.
Joel Finch, meglio conosciuto come Mud Joe, fece il suo ingresso nella grande sala fumosa in penombra, gli stivali da cowboy con gli speroni che tintinnavano, i tacchi che battevano pesantemente sul pavimento di nudo cemento. I suoi occhi infossati, brillanti d’intelligenza, erano ombreggiati da un floscio cappello a larghe tese, che gocciolava ritmicamente sul pavimento. Indossava una giacca dalle falde lunghe sino al ginocchio, di un color polvere smorto e scura d’umidità, guanti senza dita, un cinturone dalla fibbia a forma di teschio ghignante con un lungo coltello al fianco sinistro, una grande pistola a tamburo al destro e pantaloni del medesimo colore della giacca, generosamente schizzati di fango. Una barba disordinata e scura, con tanto di baffi spioventi, incorniciava un volto magro ma duro, le sopracciglia cespugliose aggrottate, il naso adunco come quello di un rapace e schiacciato come quello di un pugile, uno stecchino in movimento tra le labbra che lasciavano trasparire un ghigno giallo e storto, macchiato di nicotina.
Mud Joe attraversò la grande sala con sicurezza, come fosse stata sua, senza degnare gli altri avventori di più attenzione di quanta ne avrebbe potuta riservare a una merda sul marciapiede. Molti di quegli uomini avevano voluto fargli conoscere i loro pugni; tutti quegli uomini avevano conosciuto i suoi.
Si diceva che la pistola che portava al fianco, come la maggior parte delle armi da fuoco in circolazione, fosse solo un ferrovecchio incapace di sparare un solo colpo, ma che lo portasse con sé solo per incutere timore. Non era mai stato visto estrarla. Da nessuno ancora in vita, perlomeno.
Raggiunse il bancone, formato da una spessa e lunga asse poggiata su due pile di copertoni d’auto alle estremità, e sedette su un alto sgabello ormai privo di imbottitura, facendosi passare dietro la giacca anziché sedervisi sopra, con il gesto di chi lo ha fatto molte volte.
«Ross!» esalò con voce roca, lo stecchino che viaggiava da un lato all’altro della bocca.
«Joe.» replicò l’oste, un omaccione pelato dal ventre prominente, con indosso una camicia dai bottoni tesi allo spasmo. Portava le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, rivelando grosse braccia nerborute e pelose.
«Hai ancora di quella birra nera?»
L’oste scosse la testa in segno di diniego, le mani poggiate sul banco, le braccia larghe.
«Mi dispiace, amico, è finita quasi una settimana fa. Ci vorrà un po’ perché riesca a farne dell’altra, gli ingredienti scarseggiano sempre, come ben sai. Mi manca la liquirizia.»
«Già.» replicò semplicemente Mud Joe.
Le dita della mano destra tamburellarono sul banco, le unghie lunghe e sporche.
«La rossa, invece?»
«Quella ad alta fermentazione?» chiese l’oste con un ghigno storto sul faccione molle.
«Quella che fa venti gradi, no?»
«Hai voglia di uccidere il tuo fegato, amico?»
Mud Joe fece una risata simile a un colpo di tosse.
«Amico, il mio fegato mi ha fanculizzato da un bel pezzo ormai. Ero ancora un chierichetto che si sfondava col vino della messa quando ha rinunciato.»
Trasse un profondo respiro ed esalò una voce viscida, acuta.
«Joe, fratello – ha detto il mio fegato – tu sei un coglione. Sei nato coglione e morirai coglione. Poppavi gin nel latte quand’eri bambino ed è probabile che a vent’anni sarai un cazzo di alcolizzato che beve vino da un cartone. Se proprio ti va di lusso, vivrai in una di quelle roulotte fisse che hanno una specie di veranda improvvisata all’ingresso e passerai le giornate stravaccato su una sedia ripiegabile a tracannare scotch da quattro soldi.»
L’oste esplose in una risata ansimante, goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte.
«Parola mia,» riprese Mud Joe, «quel giorno il fegato ha fatto fagotto e se n’è andato nel paradiso degli organi inutili. Amico, da quelle parti ci sono montagne di cervelli spenti come lampadine bruciate e buchi di culo di borghesucci arricchiti, di quelli che nemmeno vanno a cagare da quanto sono preziosi.»
L’oste rise ancora e tossì, rise e tossì, martellandosi il petto col grosso pugno, paonazzo in viso.
«Da quel giorno, oste della malora, non posso più ubriacarmi. Senza fegato, non ce la faccio proprio. Quindi, se hai quella rossa che brucia l’esofago e ti prende a calci nello stomaco, versamene un boccale grosso.»
L’oste abbozzò un saluto militare e scomparve in una porta alle sua spalle.
Mud Joe ruotò sullo sgabello, dando un’occhiata alla sala.
Ai lati dell’ingresso, in due tavoli piccoli e quadrati, stavano assiepati gruppetti di giocatori di “spada”, un gioco di carte molto in voga in quel periodo, con cui certa gente si era rovinata in maniera spettacolare. Certo, rovinarsi di quei tempi era un po’ un eufemismo, considerando che il mondo era praticamente finito e vagavano tutti come vermi ciechi in un campo minato. Ma dove non esistevano più i soldi e una legge scritta, dove le bande di predoni potevano tagliarti la gola per un paio di stivali e le radiazioni solcavano il cielo come strali malarici e invisibili, c’erano uomini che riuscivano a scendere ancora più in basso e a perdere quel poco che avevano a carte. Scarpe, coltelli, vestiti, provviste, qualcuno persino schiavi o la vita stessa.
Il gioco in sé era estremamente semplice: cinque carte venivano distribuite a ogni giocatore con una già posizionata a inizio partita e il totale dei punti accumulati veniva assegnato al giocatore che riusciva a posizionare la carta più alta della mano. Quindi, se su quattro giocatori il primo metteva un otto, il secondo un dieci e il terzo non aveva a disposizione una carta sufficientemente alta da essere giocata, il quarto doveva avere un fante, una donna o un re per poter accumulare un totale di diciotto punti più gli undici, dodici o tredici delle tre suddette. Ogni mano terminava in un unico giro e il numero delle mani veniva stabilito all’inizio della partita. I semi non avevano nessun valore, tranne il re di picche. Quando la “spada” veniva buttata sul mucchio, la mano veniva assegnata al suo possessore e i punti accumulati moltiplicati per tre. Se la carta messa al centro a inizio partita era troppo alta perché i giocatori riuscissero a batterla, era considerata mano nulla.
Appena più verso il banco, dopo i tavoli dei giocatori, vi erano numerosi tavolini e tavoloni a cui era seduta l’accozzaglia più eterogenea possibile. Si poteva persino riconoscere un gruppo di cannibali, dai caratteristici tatuaggi sul volto, attorno a un tavolo rotondo con grandi boccali di birra in mano e gli sgherri di un noto schiavista, Gabriel “Uncino”, così detto per la sua abitudine di fissare gli schiavi disobbedienti a degli uncini, arpionandone la pelle della schiena e appendendoli come maiali al macello. In genere, gli schiavi di Gabriel erano molto ubbidienti. Lo stemma, grigio e rosso su campo nero, era in evidenza sui loro abiti, che non erano rovinati come quelli degli altri.
Con il volto celato dall’ombra del cappello, Mud Joe percorse i volti uno a uno, cercandone qualcuno che gli solleticasse la memoria, ma non trovò nulla. Persino i cannibali, un tipo di individui che erano ben accetti soltanto in luoghi come l’osteria di Ross, se ne stavano tranquilli e non erano ricercati.
Mud Joe era un cacciatore di uomini. Dopo il Disastro si era trovato dal fare il camionista imbottito di anfetamine, per poter guidare ore e ore senza riposo, a uomo senza meta né scopo. Un tizio, uno dei primi schiavisti a riscoprire la pratica della sottomissione dei propri simili, aveva intuito un potenziale in lui e gli aveva dato un compito: doveva scovare ed eliminare un uomo che aveva liberato certi suoi schiavi, un uomo fastidioso per il suo business.
Lo aveva trovato e lo aveva eliminato. Aveva scoperto di saperlo fare estremamente bene e aveva deciso di mettersi in affari.
Ora, dopo anni di quella vita, era il cacciatore di teste più noto nel raggio di molte decine di chilometri, Mud Joe, che riusciva a scivolare come il fango dalle mani di tutti quelli che volevano la sua, di testa, e allo stesso tempo collezionava sempre più scalpi su commissione. Esistevano altri come e più in gamba di lui, ma si trattava spesso di individui incontrollabili e inaffidabili. Assumerlo, quindi, aveva oramai un costo davvero notevole. Soprattutto in alcolici.
L’oste riemerse dalla porta con un bottiglione da due litri color cioccolato, munito di tappo da borraccia, richiudibile dopo l’utilizzo. Stappò la bottiglia con un allegro scoppio e ne versò buona parte del contenuto in un grande boccale da litro, rivelando una birra rosso scuro dalla schiuma abbondante e dorata.
«Uno spettacolo per gli occhi.» commentò Mud Joe portandosi il boccale alle labbra.
Ne bevve tre lunghe sorsate, facendo scendere e risalire il pomo d’adamo, per poi staccarne le labbra con uno schiocco.
«Aahh. E uno spettacolo per il palato, anche.»
«Bella amara, eh? Si sente il luppolo?»
«Si sente, si sente.»
«Il malto d’orzo?»
«Mi prendi per il culo, vero?»
«Ammetti di non capirne un cazzo?»
«Lo ammetto.»
«Con quella potresti scioglierci i cadaveri, amico.»
«Allora è quello che fa per me.»
Bevve un’altra lunga sorsata, minando fortemente il livello della birra nel boccale.
«Cosa ti spinge da queste parti, Joe? Era un pezzo che non ti facevi vedere.»
Mud Joe fece uno strano sorriso, gli occhi color nocciola di ghiaccio.
«Parto, amico mio.»
L’oste alzò le sopracciglia, increspando la fronte in una stratificazione di rughe orizzontali.
«Parti? E dove vai?»
«Verso Nord, amico mio. Verso Nord.»
«Fa fresco, ho sentito dire.»
«Eh, i problemi della vita.»
Vuotò il boccale e fece gesto a Ross di riempirglielo di nuovo. L’oste eseguì, lasciando un dito di birra nella bottiglia e con un grugnito Mud Joe gli fece cenno di versare tutto.
«Ma è il fondo, il residuo!» protestò Ross, obbedendo comunque.
«Tutto fa brodo.» commentò Mud Joe.
Bevve un altro sorso, stavolta piccolo, e si asciugò la schiuma dai baffi col dorso della mano.
«Ti ricordi il Disastro, Ross? Ti ricordi il sogno?»
«Quale sogno?» chiese cautamente l’oste. Pareva a disagio.
«Il Nord, Ross. Il Nord che ti chiama, manco fosse un fottuto richiamo per uccelli.»
L’oste ebbe un brivido, ma non rispose.
«Ai tempi, l’avemmo tutti. Quel sogno fu comune a tutti i superstiti.»
«Già, ricordo…» mormorò l’oste, «ne fui terrorizzato. Non c’erano vere immagini, o suoni, odori, niente. Eppure era chiarissimo: Nord. Che senso ha?»
Scosse la testa, a disagio.
Mud Joe lo fissò con espressione strana.
«Il sogno è tornato, Ross. Bisogna andare a Nord. Molti vi si stanno già dirigendo e io non sarò da meno.»
«Cosa speri di trovarci?»
Mud Joe fece spallucce.
«Non so esattamente. Non sono preparato. So che qualunque cosa io pensi, sarà sicuramente sbagliata. Ma io spero… un nuovo inizio. Un’altra possibilità. Forse è l’unico luogo abbastanza lontano dalle acque.»
L’oste strinse le labbra, che divennero pallide e sottili.
«Non so, Joe. E se ci fosse qualcosa di radioattivo? Non faresti nemmeno in tempo ad avvicinarti, nessuno di quei pazzi che stanno correndo verso Nord riuscirebbe nemmeno a vedere cosa ci sia realmente. Morireste prima, vi sciogliereste come gelato al sole, la pelle vi si staccherebbe e il sangue vi ribollirebbe. Ecco cosa accadrà.»
Mud Joe fece di nuovo quella risata simile a un colpo di tosse.
«Cazzo, amico, che visione che mi hai dato! Comunque non mi fotte. Devo rischiare, sono trent’anni che faccio ‘sta merda, vado in giro ad ammazzare la gente per un bourbon. Se è come dici tu, amen, non si può dire che abbia sprecato la mia vita. Ma se ho ragione io… ah!»
Si strofinò le mani l’una contro l’altra con un largo ghigno storto, lo stecchino incastrato tra un canino e un incisivo.
«Pensa che roba. Un nuovo inizio. Merda, se fottiamo tutto anche stavolta meritiamo di estinguerci, non ci sono cazzi!»
L’oste fece un pallido sorriso.
«Non hai tutti i torti. Quando parti?»
«Sono già in viaggio, amico. Devo prima fare un salto a Silver Chess, ho un ultimo lavoro, quindi ancora una ricompensa da incassare. Poi vado, Nord.»
«Deviare fino a Silver Chess ti prenderà qualche giorno.»
Mud Joe fece di nuovo spallucce.
«Nessuno mi corre dietro. Quando sarò pronto e avrò sistemato i miei affari, partirò. Non penso comunque mi occorra più di una settimana.»
«Chissà quanto sarà lontano da qua. Nord non è propriamente un posto. Come saprai quando sarai arrivato?»
Mud Joe bevve un lungo sorso, scorgendo un movimento alla sua sinistra.
«Non so. Penso che lo saprò e basta. Confido di incontrare un po’ di pellegrini che mi indichino la via, lungo la strada. Mi hanno raccontato di uno spostamento massivo, in questi giorni.»
Fece scattare la mano sinistra e afferrò per il colletto un ragazzo dal volto foruncoloso, tirandolo in avanti e sbattendogli la faccia contro il banco. La vittima emise un guaito e il coltello che stringeva in mano volò via.
«Smamma, pidocchio.» grugnì Mud Joe e il ragazzo non se lo fece ripetere due volte.
Tornò quindi a voltarsi verso l’oste, come se nulla fosse accaduto.
«A ogni modo, la decisione è presa. Se trovassi qualcosa di interessante, ti farò sapere. Potresti aprire la prima distilleria del nuovo mondo, ci pensi?»
«Non sarebbe male.»
«No davvero.»
Mud Joe terminò la sua birra e spinse il boccale vuoto verso l’oste.
«Cosa ti devo?»
Ross si grattò una guancia, soprappensiero.
«Sale ne hai?»
«Scherzi? È più facile procurarsi lingotti d’oro, che sale.»
Ross sospirò.
«Peccato che l’oro non abbia più alcun valore. Spezie?»
«Nah.»
«Hai almeno qualcosa di vagamente attinente col cibo?»
«Un pacchetto di patatine, un coniglio morto e delle mele che se potessero uccidere lo farebbero.»
«Non smetti mai di sparare stronzate quando parli?»
«Almeno io mi impegno. Con quella faccia, far uscire merda dalla bocca deve venirti naturale.»
Ross batté le mani l’una contro l’altra, volgendo lo sguardo al cielo.
«Certe volte mi chiedo perché non ti avveleno la birra, sinceramente.»
«Non avendo il fegato, non so se la cosa funzionerebbe. Comunque, ho un paio d’etti di margarina, ora che ci penso. Interessa?»
«Be’… non dico di no. Ma non ci siamo, due etti di margarina per due litri di “Bloodstained” non bastano proprio.»
«Be’, vediamo…» grugnì Mud Joe frugandosi in tasca. Posò la margarina sul bancone e Ross la prese.
«Allora?»
«Tabacco per farti le sigarette?»
«Non fumo.»
«Fai male.»
Mud Joe prese la borsa a tracolla che portava sotto la giacca e cominciò a rovistarci con foga.
«Ho anche una bottiglia di ketchup scaduto da anni e un metro di quelli a riavvolgimento automatico, da cinque metri.»
Ross ci pensò su.
«Il ketchup potrebbe servirmi, tanto sappiamo tutti che la data di scadenza di quella robaccia non conta nulla. Però il metro mi sarebbe decisamente più utile. Prendo il metro.»
«Ottima scelta, signore, torni da noi, si porti un amico, sconto del cinquanta percento su tutti gli articoli di intimo femminile.»
«Umorismo da fogna.»
«Quando ti vedo mi sorge spontaneo.»
Mud Joe estrasse dalla borsa un piccolo oggetto nero, con una strisciolina gialla che spuntava da uno dei lati. Lo diede in mano a Ross, che provò a srotolarlo e a rilasciarlo, il nastro che scattava all’indietro per tornare ad arrotolarsi con rapidità.
«Rivoglio la margarina, però. Quella birraccia sfondabudella non vale entrambe le cose.»
«Giusto, giusto» brontolò Ross restituendogliela.
Mud Joe la rinfilò in tasca, schiacciandocela dentro per bene, e voltò la testa per sputare lo stecchino a terra. Estrasse quindi dal taschino sul petto della giacca un pacchetto sgualcito e ammaccato di sigarette senza filtro e ne estrasse una tutta storta, a zigzag, infilandosela poi tra le labbra.
«Hai da accendere, oste?»
«Giusto quello. Ormai le sigarette sono merce rara.»
«Per questo mi porto dietro il tabacco.»
Ross estrasse un fiammifero da un pacchetto, lo strofinò sul banco ruvido e lo tese a Mud Joe, che si sporse in avanti e aspirò un paio di boccate, ravvivando la brace sulla punta della sigaretta fino a stabilizzarla.
«Quindi te ne vai. Mud Joe, il terribile cacciatore di uomini, parte alla ricerca di Dio.»
Mud Joe ridacchiò, esalando fumo dal naso.
«Che sia Dio o il Diavolo, questo non lo so dire, amico mio. A me basta che mi dia un nuovo inizio. Il mondo è ripartito da zero, vince quello che prima si fa adorare.»
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 2“]Prima Parte
Oramai erano passate alcune ore dal loro incontro ravvicinato con gli schiavisti e, fortunatamente, non ne avevano più udito le voci né avvertita la presenza nelle vicinanze. La sera si stava avvicinando rapidamente, anche se entro un paio di mesi sarebbe giunto il solstizio d’estate, e alcune nuvole minacciose avevano precocemente oscurato il cielo con le loro ombre grigie e nere, rotolando nel cielo in masse informi e mutevoli. Nugoli di fastidiosi moscerini avevano preso a formarsi nell’aria del tramonto e numerosi uccelli planavano con rapidità in quei mucchi frenetici e ronzanti, inghiottendone in gran quantità.
Poiché non potevano passare la notte in quell’acqua e il rischio di un acquazzone non era da escludersi, Adrian decise a malincuore di scegliere una delle case apparentemente vuote lungo la via che stavano percorrendo, con l’idea di pernottarvi. La cosa non lo entusiasmava per diversi motivi: in primo luogo, la possibilità che fosse abitata da uomini o animali ostili; in seconda battuta, perché l’immobilità era pericolosa, anche di notte; infine perché, banalmente, quelle porte e finestre sfondate e oscure somigliavano terribilmente a fauci e occhi malvagi e fondi. Il buio che vi albergava risvegliava un atavico istinto di timore in lui.
Condusse comunque per mano Rachel in uno di quei palazzi, un anonimo edificio di mattoni rossi con tre scalini traballanti, che portavano a un uscio inclinato e sverniciato. Non era però scardinato, come invece molti altri. L’acqua non arrivava sino alla porta e questo era già positivo.
Adrian si poggiò a essa spingendo con forza e, stridendo e strisciando pesantemente sul pavimento, riuscì ad aprirla con inquietante lentezza. Dentro, l’oscurità era attenuata dalla luce filtrante da due finestre luride, posizionate ai lati dell’ingresso, e subito Adrian chiuse dietro di loro la porta, trascinandovi poi davanti – con evidente sforzo – un basso e tozzo cassettone che si trovava proprio in fronte a essa, a lato di una scala. Ve lo spinse contro per bene, grugnendo e ansimando per la fatica. Quindi sorrise.
«Bene. Ora facciamo piano piano e diamo un’occhiata in giro. In silenzio. Vediamo se c’è qualcuno, ok?»
«Ok.»
Fecero un rapido e silenzioso giro per le stanze del pianterreno, scoprendo un salotto in pessimo stato e una grande cucina accessoriata. Lavapiatti, frigorifero e microonde parvero osservarlo sconsolati dai loro loculi, un tempo tecnologia di grido e ora inutili catafalchi buoni solo a occupare spazio.
Adrian frugò per bene mensole e cassetti, trovando tre barattoli di vetro ancora chiusi. Uno era di acciughe sottolio, uno di senape e uno di olive, oltre a una bottiglia di plastica di ketchup tutta deformata da una pressione interna. Continuando a cercare trovò anche un intero pacco di cracker e ben tre barattoli di piselli e uno di fagioli, un rotolo di carta per pulirsi le mani e un paio di lattine di coca. Nello sgabuzzino, infine, tra le scope, gli stracci e le conserve dai vasetti esplosi e pieni di muffa, trovò una confezione da sei di bottiglie d’acqua da un litro e mezzo cadauna.
A quel punto il buio era ormai quasi completo, ma si riuscivano ancora a distinguere i contorni delle cose.
«Forse stasera si mangia.»
Una luce balenò negli occhi della bambina.
«Speriamo…» mormorò.
Lui le arruffò i capelli e si avviò a controllare una porta al di sotto delle scale, che doveva evidentemente portare a una sorta di scantinato o a un banale sottoscala.
Provò ad aprirla e subito si avvide che era bloccata, come chiusa a chiave dall’interno. La cosa lo preoccupò e, per sicurezza, prelevò una sedia dalla cucina e la incastrò con forza sotto la maniglia. Se qualcuno di vivo si fosse trovato lì dentro, difficilmente sarebbe riuscito a uscire.
«Pensi che ci sia qualcuno dentro?»
«Forse.»
«E se non è qualcuno cattivo e non riesce a uscire? Morirà?»
Adrian fece una smorfia contrariata.
«Non hai tutti i torti…»
«Se noi ci nascondessimo in un sottoscala e qualcuno bloccasse la porta, non riusciremmo ad uscire, vero? Moriremmo?»
«Ma no, ma no, dopo un po’ di tentativi avrei la meglio sulla porta…»
«Ma non sicuramente, vero?»
Adrian alzò le mani in segno di resa.
«Ok, ok. Domattina, quando ci sarà un po’ di luce per vedere bene, toglierò la sedia, ok? E magari proverò ad aprirla, per sicurezza.»
«Ok.»
«Ok.»
Sempre col machete in mano, Adrian salì lentamente la scala, che scricchiolò protestando sotto il suo peso a ogni passo. Era composta da soli dodici scalini e portava a un pianerottolo con tre stanze, tutte con la porta chiusa. Il buio, là sopra, era ormai impenetrabile.
Malvolentieri, poiché il rumore avrebbe tradito la loro presenza – continuava paranoicamente a comportarsi come se fossero stati estremamente silenziosi tutto il tempo – Adrian estrasse da una delle tasche una piccolissima torcia a dinamo e ne ruotò velocemente la levetta per qualche secondo, strappandone un gemito prolungato. Premette quindi il tasto sul suo dorso e una pallida luce fendette l’oscurità.
La prima porta a destra rivelò un bagno con tanto di vasca e mobiletto pieno di riviste, quella al centro un piccolo studio con un computer posato su di una scrivania ingombra di carte e raccoglitori ordinatamente impilati in scaffali lungo le pareti e, infine, quella a sinistra una camera da letto con letto matrimoniale, comodini con tanto di abat-jour e radiosveglia e un grande armadio.
Adrian lo aprì e lo trovò pieno di vestiti che sapevano fortemente di naftalina. Il loro stato era piuttosto buono, in parte perché non si avvertiva umidità in quella parte della casa e in parte perché le tarme e altri insetti non si erano avvicinati a essi negli anni.
La luce della torcia si stava rapidamente affievolendo e Adrian pompò nuovamente sulla levetta. Non potevano comunque continuare a illuminare l’ambiente a quel modo e Adrian ebbe un’idea a riguardo.
Nella sua casa, prima del Disastro, aveva nel comodino a fianco del letto fiammiferi e candele nel caso mancasse la luce durante le tempeste o a causa di lavori sulla linea elettrica. Sperò che i proprietari di quella in cui si trovavano fossero stati altrettanto avveduti.
Aprì entrambi i comodini e, nel secondo, apparvero ben due corte candele di cera rossa e un pacchetto pieno solo per metà di fiammiferi.
Adrian li prese in mano e li trovò umidi, ma il terzo si accese al secondo tentativo e, con esso, poté incendiare lo stoppino di una candela e creare un po’ di chiarore tremolante nella stanza. Fece gocciolare un po’ di cera calda in un portacenere che si trovava sopra a uno dei comodini e ve la fissò, creando un portacandela abbastanza pratico.
«Molto bene, abbiamo il fuoco. Mi sento un po’ un Prometeo.»
«Che cos’è un Prometeo, papà?»
«Non cos’è, tesoro, ma chi. Devi sapere che Prometeo fu un dio antichissimo, pensa, c’era già quando gli uomini erano ancora dei primitivi e non conoscevano nemmeno il fuoco. Impietosito, Prometeo rubò una scintilla dal carro di fuoco di Apollo e la donò all’uomo, che grazie a ciò scoprì il fuoco.»
«Oh,» disse Rachel con un sorriso, «è una bella storia. Finisce bene?»
«Certo,» mentì Adrian, omettendo la punizione che gli altri dèi avevano riservato a Prometeo per aver donato il fuoco all’uomo, «gli uomini vissero meglio grazie al fuoco e per molto tempo adorarono Prometeo, ringraziandolo per il magnifico regalo.»
«Mi sembra giusto.»
«Anche a me. Ora, esame delle provviste.»
Naturalmente, tutto quello che aveva trovato era scaduto da molto tempo, persino l’acqua recava una data di ventotto anni prima, ma non si lasciò scoraggiare da questo. Contava che le acciughe e le olive fossero state rispettivamente conservate dall’olio e dalla salamoia, ma per il momento le accantonò. I barattoli di legumi erano ancora ben sigillati, le bottiglie d’acqua anche e i cracker erano avvolti da uno strato di plastica mista a stagnola che sperava li avesse salvati. La senape era la cosa più a rischio.
Aprì quindi il barattolo, il cui coperchio si svitò con un suono sordo e l’avvicinò al naso per sentirne l’odore. Non avvertendo alcuna stonatura, vi intinse la punta di un dito e la leccò, assaggiandola con grande cura. Gli parve buona, per quanto la senape potesse esserlo. Aprì quindi un pacchetto di cracker, che si rivelarono mollicci al tatto, e scoprì che sapevano solo leggermente di vecchio, ma sembravano commestibili.
«Bene, stasera grassi a schifo. Senape spalmata sui cracker!»
«Urrà! Si mangia!»
Usando il coltello prelevato in cucina, Adrian spalmò senape su due pacchetti di cracker, e in meno di un minuto sparirono nei loro stomaci. Aprì quindi una delle bottiglie d’acqua e, non avendo riscontrato né odore né sapore irregolari, ne bevve un gran sorso e la passò a Rachel.
«Una casa fortunata, questa. Erano anni che non ne vedevo una che non fosse stata svaligiata di ogni cosa. Chissà come mai non è stata toccata.»
Rachel fece spallucce.
«Forse solo per caso. Ci sono tante case in una città. Una può sfuggire.»
Adrian si grattò la barba biondiccia, soprappensiero.
«Può darsi. Anche se trent’anni anni sono tanti, c’è tempo di controllarne tante, di case.»
«Ma questa non lo è stata.»
«Già. Adesso sì, però. Anche questa è stata razziata del poco di utile che conteneva.»
Rachel fece di nuovo spallucce.
«Siamo stati fortunati. Posso avere qualcos’altro?»
Adrian fece giocosamente di no col dito.
«Domani. Facciamoci durare quel poco che abbiamo.»
«Ma io ho fame!»
«Se mangi tutto stasera, avrai più fame domani e ancora di più dopodomani. Mangiando poco per volta, ne avrai sempre meno.»
Rachel incrociò le braccia.
«Se lo dici tu.»
«Sì, lo dico io. È ora di dormire. Approfittiamo di questo comodo lettone, per una volta che ne abbiamo uno a disposizione.»
«Va bene.»

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Durante la notte scoppiò un violento temporale. L’acqua prese a flagellare con violenza il tetto sopra di loro e la finestra della camera, aiutata da un vento feroce. Il rumore degli scrosci e delle tegole traballanti sotto la forza dell’aria lì per lì li tenne svegli. Un lampo squarciò il cielo, facendo apparire per un istante la stanza al negativo, quindi un tuono rombò a breve distanza da loro, così forte da far tremare i cassetti dei comodini.
Rachel si strinse con forza a suo padre, spaventata, ma ben presto la stanchezza ebbe il sopravvento sulla paura ed ella cadde addormentata. Adrian rimase sveglio ancora un po’, contemplando il poco che si poteva vedere fuori dalla finestra sporca e percorsa da rivoli d’acqua, la testa posata sul cuscino. Si potevano indovinare le sagome dei palazzi accanto a loro e la sagoma contorta di un albero, ma niente più.
Poco dopo seguì Rachel nel mondo dei sogni.
Non poteva essersi addormentato da molto quando un forte colpo, un suono del tutto estraneo alla tempesta fuoristante, lo fece alzare di scatto a sedere sul letto.
Si guardò attorno, disorientato, Rachel che dormiva placidamente accanto a lui, e per un attimo pensò di aver sognato o che qualche oggetto in strada fosse stato ribaltato dal vento, forse un bidone. Il colpo si ripeté quasi immediatamente e, con un tremito, Adrian si rese conto che proveniva dal piano sottostante.
Rabbrividendo mentre abbandonava il tepore delle coperte si alzò, nudo, e afferrò il machete. Non perse tempo a rivestirsi poiché un terzo colpo, ancora più forte, gli suggerì che non ne dovesse rimanere molto. Di qualsiasi cosa si trattasse, doveva intervenire immediatamente.
Uscì dalla stanza, la cui porta non ricordava di aver lasciata aperta, e scese rapidamente le scale, i piedi nudi silenziosi sotto lo scroscio dell’acquazzone. I suoi occhi saettavano freneticamente da una parte e dall’altra nell’oscurità, tentando di cogliere movimenti tra le ombre. Un nuovo colpo lo fece sobbalzare, quasi strappandogli un grido, e con terrore si rese conto che proveniva da dietro la porta che aveva puntellato con la sedia.
Vi si avvicinò lentamente, il machete che penzolava nella mano ora molle come burro, le braccia inerti lungo i fianchi.
La porta appariva incurvata verso l’esterno, come se qualcuno da dentro vi stesse applicando un’enorme forza senza riuscire, tuttavia a romperla. La sedia aveva lo schienale piegato e venato, ma le gambe non si erano mosse, mantenendola al suo posto.
Un quinto nuovo colpo rimbombò davanti a lui e uno scricchiolio lamentoso si levò dalla sedia, che parve essere ulteriormente compressa. La maniglia appariva molle, come ormai fuoriuscita dalla sua sede naturale e dondolava leggermente da un lato e dall’altro, cavando bagliori nell’oscurità.
Adrian strinse convulsamente la mano attorno al manico del machete, incapace di decidere sul da farsi. Qualsiasi cosa si trovasse dall’altra parte della porta era evidentemente dotata di una forza tale che lui si sarebbe probabilmente trovato incapace di affrontare. L’unica cosa sensata da fare era risalire di corsa le scale, raccogliere Rachel e lo zaino già fatto e, vestiti o meno, uscire il più velocemente possibile da quella casa.
Ordinò alle gambe di muoversi e farlo girare verso le scale, ma sembrava quasi che i piedi fossero rimasti incollati a terra. Si forzò a voltare la testa nella direzione in cui voleva fuggire, ma scoprì di non esserne capace, come in un brutto sogno.
Per un attimo persino il suono scrosciante della pioggia parve tacere e tutto cadde nel silenzio, mentre un colpo di potenza mostruosa spingeva con forza inaudita la porta verso l’esterno e schiantava la sedia in due, aprendosi con tale velocità da sbattere contro la parete e rimbalzare, tornando indietro quasi immediatamente.
Adrian poté vedere il grosso segno lasciato dall’urto sulla porta mentre questa, lentamente, si apriva nuovamente verso di lui, questa volta senza ostacoli.
Un’oscurità impenetrabile si trovava oltre a essa, ma un basso rumore era chiaramente udibile, una sorta di respiro cavernoso e roco, affaticato, umido, come di una grossa belva ansimante e sbavante che lo fissasse in agguato.
Adrian riuscì a sollevare un piede e posarlo dietro di sé, trascinando l’altro e arretrando, mentre il frastuono della pioggia tornava nelle sue orecchie. Un lampo improvviso stampò nel buio l’immagine bianconera di quattro sagome schiacciate le une contro le altre, come ammassate in uno spazio troppo stretto, che lo fissavano con vuote caverne al posto degli occhi. Mandibole cadenti mettevano in risalto denti macchiati e scheggiati, capelli sporchi e aggrovigliati ne coprivano le teste ed esse si trascinavano, come un tutt’uno, verso di lui, grugnendo e gemendo, sbuffando e guaendo, come bestie martoriate attraverso un reticolo di filo spinato, verso la libertà. Lingue nere e viola guizzarono tra le labbra morte, come assaporando l’aria al pari dei serpenti e una mano scarna dalle unghie lunghe si protese lentamente verso di lui, per afferrarlo.
Con un grido Adrian balzò all’indietro, cozzando contro la parete, si voltò scompostamente verso le scale e inciampò, cadendo mentre urlava, vide il pavimento avvicinarsi e…
…con un tonfo cadde dal letto.
Rachel si destò di soprassalto e si rizzò a sedere, spaventata, mentre osservava il padre dimenarsi sul pavimento, tra le lenzuola, urlando.
«Papà!» strillò, incapace di comprendere cosa stesse accadendo.
«Rachel!» rispose Adrian rizzandosi a sedere, le coperte ancora sulla testa.
«Cosa c’è, papà? Stai male?»
Adrian si tolse con uno scatto le coperte dal volto, respirando affannosamente. I suoi occhi scivolarono rapidamente per la stanza, assorbendo la realtà in cui si trovava, e il suo cuore impazzito cominciò a rallentare.
Era stato solo un incubo, terribilmente realistico, ma non reale.
«Un brutto sogno» disse con voce rotta, risalendo sul letto e tirandosi dietro le coperte ormai appallottolate dalla caduta e dal suo agitarsi.
«Solo un brutto sogno» ripeté.
Rachel sembrò rassicurata dalla sua spiegazione e si rimise comoda per dormire.
Il temporale fuori sembrava un po’ meno feroce e per quella notte non vi furono altri tuoni, né altri incubi.

Il mattino dopo pioveva ancora con una certa intensità.
Rachel si svegliò per prima, riposata e con molta fame, i capelli sparati da tutte le parti, e decise di lasciar dormire suo padre ancora per un po’. Fece pendere le gambette magre oltre l’orlo del letto e posò silenziosamente i piedi nudi a terra. Un brivido freddo le risalì da sotto le piante su fino al collo, facendole accapponare la pelle, ma non voleva mettersi i vecchi vestiti sporchi e puzzolenti, le piaceva quella sensazione di libertà.
Lì per lì pensò di prendere qualcosa da mangiare da quello che aveva trovato suo padre il giorno prima ma, pensando che si sarebbe probabilmente arrabbiato, decise di aspettare che si svegliasse per poi fare colazione assieme.
Andò alla porta e ne abbassò con delicatezza la maniglia, aprendola senza far rumore. Al contrario di quella d’ingresso, questa era ancora a posto. Se l’accostò dietro, senza però chiuderla del tutto, e si guardò attorno. Nella luce del giorno, per quanto grigia e filtrata dalle finestre sporche, la casa aveva ancora un aspetto vagamente inquietante, ma non davvero pauroso come la sera prima.
Ignorò la porta del bagno, il cui uso le era solo vagamente chiaro, e le scale che portavano al piano di sotto, perché non ne aveva il coraggio e si sarebbe allontanata troppo da suo padre. Decise allora di esaminare lo studio, la cui porta era rimasta aperta dalla sera prima, e vi entrò con curiosità.
Il pavimento era coperto da un tappeto piuttosto folto che, quando vi poggiò sopra i piedi, le fece il solletico tra le dita e rilasciò qualche tenue sbuffo di polvere. Come avevano notato la sera precedente, quasi tutto lo studio era occupato dal mobile al centro con su posato il computer. I pochi spazi non occupati da tastiera e mouse erano ingombri di carte sparpagliate, molte delle quali erano ormai per terra, e le pareti erano coperte da scaffali a incastro pieni di raccoglitori rossi e blu con grandi etichette sui dorsi. Per terra, a lato della sedia con le ruote, vi era un cestino della spazzatura rovesciato a terra, in parte pieno di carta.
Rachel non sapeva propriamente leggere, dato che suo padre glielo aveva insegnato a tempo perso e tendeva a spiegarle le cose a voce piuttosto che scrivendole o facendogliele leggere, ma con un certo sforzo poté tradurre le parole grandi e squadrate scritte a mano sui raccoglitori.
«Con-ta-bi-li-tà… due zero tre cinque… feb-bra-io…»
Non capendo esattamente cosa significasse, provò a cambiare faldone.
«Di-chi-a-raz… di-chia-ra-zio-ne… due zero due nove…»
Scosse la testa, confusa. I faldoni blu riportavano tutti scritte simili, variando quasi esclusivamente nei numeri che riportavano oltre alle scritte. I rossi, invece, erano meno voluminosi e sembravano riportare tutti parole diverse.
«Ri-cor-di… e-sta-te… San Fran… Fra-nc… Fran-cis-co…»
«Ricordi estate San Francisco, tesoro.»
Rachel sobbalzò, presa di sorpresa da suo padre.
Si voltò e lo guardò con espressione colpevole.
«Non ti saresti dovuta allontanare da sola.»
«Ero vicina. Non volevo svegliarti.»
Adrian fu sul punto di sgridarla, ma parve trattenersi.
«Cos’è San Francisco?»
«Il nome di una città, tesoro. Piuttosto lontana da qui.»
«Esiste ancora?»
Lui sorrise.
«Forse. Ma non sarà più come un tempo, come tutte le città. Sarà abbandonata e cadente, o abitata ma comunque cadente. Nessuno si occupa più di tenerle a posto.»
«Perché ci sono poche persone?»
«Anche. Ci sono poche persone e molte di queste non sono capaci di fare certi lavori o non sanno nemmeno quali siano esattamente quelli necessari a mantenere una città in buono stato. Inoltre, non interessa a nessuno. Siamo quasi tutti in movimento, senza una casa, nessuno si ferma a lungo in un posto perché non c’è niente da mangiare o per paura degli schiavisti.»
«Che cos’è una contabilità?»
«Te lo spiego un’altra volta. Mangiamo qualcosa?»
«Sì! Ho fame!»
«Non avevo alcun dubbio.»
Tornarono in camera e sedettero sul letto, con le coperte avvolte attorno al corpo e sulla testa, le provviste davanti a loro. Adrian aprì un altro pacchetto di cracker, il barattolo delle acciughe e, tentando di non gocciolare sulle lenzuola, ne mise una per lungo su di un cracker e ne staccò metà con un morso, masticandolo poi lentamente, come soprappensiero. Allungò quindi la metà restante verso Rachel, che la mise tutta in bocca con entusiasmo e cominciò a masticare.
In pochi istanti il suo viso, da estatico che era, si rattrappì e tirò fuori la lingua, coperta di grumi masticati di cracker e pesce.
«Che schifo!» si lamentò, «Bleh!»
Adrian ridacchiò.
«Ma è cattivissima, papà!»
«Ha solo un sapore un po’ forte. Non azzardarti a sputarla, eh! Mangiala che ti passa la fame.»
Di malavoglia Rachel masticò ancora per un po’ e inghiottì, aiutandosi con un sorso d’acqua.
«Ed è anche un sacco salata.»
«Vero. Ma vedrai che ti abituerai presto al sapore delle acciughe.»
«Mmm…»
«Ti conviene, perché ce ne sono un bel po’ in questo barattolo. O questo o niente.»
Senza aggiungere altro preparò un altro cracker e ne mangiò di nuovo metà, offrendo poi la parte rimanente alla figlia.
Questa guardò l’acciuga unticcia come si potrebbe fare con un topo particolarmente grosso ma la prese, la mise in bocca e la masticò velocemente, inghiottendo quasi subito.
«Mastica, che ti fa male alla pancia.»
«Ok.»
Mentre Rachel mangiava, Adrian si alzò e guardò fuori dalla finestra, mettendosi una mano sopra gli occhi per coprire il riflesso.
Fuori pioveva ancora con una certa forza e l’acqua in cui il giorno prima avevano camminato sembrava essersi alzata. Non avrebbe potuto dirlo con certezza dal punto in cui si trovava ma riteneva che, avendo piovuto con abbondanza per tutta la notte, la cosa non fosse da escludersi.
Pensò che per un paio di giorni si sarebbero potuti trattenere in quella casa. Sembrava abbastanza sicura, sopraelevata com’era rispetto alla strada e con l’ingresso sbarrato e avevano persino qualcosa da mangiare. Potevano riposarsi in attesa che spiovesse e il livello dell’acqua calasse un poco, quindi riprendere la marcia senza rimanere fradici e tempestati dalla pioggia e dal vento per tutto il giorno.
Dato che avrebbero dovuto rimanere lì, decise di affrontare la porta al piano sottostante. Gli parve una cosa oscura e minacciosa, come una fiera silenziosa acquattata in un angolo a fissare un uccellino con grandi occhi ipnotici, e ne ebbe paura. Vi si avvicinò con cautela, constatando che sia l’anta che la sedia erano prive di crepe, danni o manomissioni di alcuna natura, quindi vi posò un orecchio contro e ristette alcuni istanti in ascolto.
Non udì alcun suono e, quando provò a bussarvi, non vi fu reazione, solo le sue nocche contro il legno.
Aveva promesso a Rachel di togliere la sedia per sicurezza, quel giorno, ma la bambina sembrava aver dimenticato la promessa e non pareva intenzionata a scendere le scale. Inoltre, lui non credeva affatto vi fosse qualcuno di vivo là sotto. Nonostante ciò si sentiva più sicuro con la sedia a bloccare la porta e decise di lasciare le cose così come stavano.

Passarono la giornata a dormicchiare e ciondolare per la casa, mangiucchiando e riprendendo le forze. Quando calò la sera fu Rachel ad accendere una candela e Adrian si sorprese a osservarla fissare la fiammella vacillante, alla cui luce il suo volto appariva stanco e segnato nonostante l’età.
Ancora una volta Adrian si trovò a contemplare come quella vita la stesse consumando e modellando. Il mondo era un luogo duro e selvaggio, pericoloso, e molti si erano dovuti adattare a esserlo più di lui. Le alternative erano perire o sottomettersi ai più forti. La schiavitù era tornata in auge e bande più o meno organizzate percorrevano le strade in ogni direzione, alla ricerca di prede umane da rivendere o, addirittura, da divorare.
Scosse la testa, chiedendosi se stesse facendo abbastanza o, perlomeno, se stesse tenendo i comportamenti corretti per la sua educazione. Se fosse sopravvissuta, chi sarebbe diventata? Una puttana in qualche bordello schiavista? Una cacciatrice di teste? Una superstite in fuga perenne? Membro di qualche banda di cannibali?
Una piega amara gli curvò la bocca, mentre pensava tutto ciò. Non gli rimaneva che sperare di star agendo al meglio nei suoi confronti, instillandole i giusti valori.
Aprì l’armadio della camera da letto e cominciò a esaminarlo, scorrendo cappotti, pantaloni, cravatte, cappelli e quant’altro alla luce della candela. Era molto ben fornito e i vestiti non erano particolarmente danneggiati dal tempo o dall’umidità; erano inoltre rimasti protetti da eventuali parassiti da una dose massiccia di naftalina, il cui odore in sottofondo era ancora abbastanza chiaro.
Chiunque avesse vissuto lì non aveva avuto figli, come testimoniava la presenza di un’unica camera con letto matrimoniale, e gli abiti che gli si presentavano davanti davano l’idea di una coppia di quarantenni, né giovani né vecchi nel modo di vestire.
In alto nell’armadio, su di un basso ripiano, vi erano alcune scatole da scarpe. Le tirò giù e le aprì trovando, con gioia, un paio di scarponi da montagna a collo alto praticamente nuovi, per di più della sua misura. Le altre scatole contenevano scarpe con tacchi, sandali estivi o scarpe di vernice da uomo, nulla di davvero utile. Era un peccato che la coppia che aveva abitato in quella casa non avesse avuto bambini, sarebbe stato davvero un bel colpo trovare qualcosa anche per Rachel.
Soddisfatto di come stavano andando le cose – erano puliti, asciutti, apparentemente al sicuro e con qualcosa da mangiare a disposizione – si accinse a tirar fuori qualcosa da preparare per il pranzo. Forse quella porta al piano di sotto conduceva in una cantina, magari con conserve o altro di commestibile. Magari avrebbe trovato qualche insetto o, addirittura, un topo.
Scosse la testa e scacciò quel pensiero. Quella porta non gli piaceva e avrebbe fatto a meno di rischiare di aprirla, per il momento. Non erano così disperati.

Quella notte, il sogno tornò.
Questa volta sapeva cosa sarebbe accaduto, ma non riuscì comunque a fermarsi. Ristette davanti alla porta fissandola stupidamente mentre, colpo dopo colpo, la sedia si spaccava e l’anta si spalancava, rimbalzando con violenza sulla parete e richiudendosi quasi fino in fondo.
Questa volta, quando i cadaveri putrescenti cominciarono a uscire e ad alzare le braccia macilente, tendendo verso di lui le mani nel tentativo di afferrarlo, lui riuscì ad arretrare maggiormente, andando verso la porta d’ingresso.
I cadaveri si voltarono in maniera grottesca, gli arti fuori sincrono, il rumore allo stesso tempo viscido e secco di giunture e tessuti che strisciavano gli uni contro gli altri. Per la prima volta Adrian notò che erano assicurati a lunghi fili bianchi e molto sottili che serravano loro braccia, gambe e testa al pari di burattini. I fili erano tesi e scomparivano nell’oscurità dietro la porta. Li vide vibrare come corde di chitarra mentre imprimevano i comandi ai cadaveri che, mossi da un burattinaio forse inesperto, rispondevano in maniera poco efficiente agli stimoli.
I due più vicini gli risultarono irriconoscibili ma, con raccapriccio, si accorse finalmente che due dei quattro assomigliavano a lui e a Rachel.
Adrian era ormai giunto alla porta e la scontrò con la schiena, incapace di reagire a ciò che stava accadendo, il machete inutile nella sua mano. I cadaveri continuarono ad avvicinarsi con lentezza, gorgogliando e scricchiolando, ma ora parevano in difficoltà, come ostacolati. I fili dietro a essi erano tesi allo spasmo, come se il burattinaio fosse rimasto incastrato nella porta.
Per un attimo Adrian sperò che non riuscisse a passare ma, con un rumore cigolante – simile a quello di un palloncino costretto attraverso uno spazio troppo piccolo – una grande palla nera cominciò a emergere dal vano oscuro, piegandosi e torcendosi nello sforzo.
Quando fu finalmente uscito Adrian lasciò cadere il machete, il respiro incastrato nel petto: occhi nerissimi dalle cornee gialle lo fissavano da un volto altrettanto nero e crudele, dove un enorme sorriso dai denti appuntiti, come fossero stati quelli di uno squalo, si ampliava oltre l’immaginabile sfiorando le estremità di quel faccione bidimensionale. Grandi mani nere lo precedevano di poco, tenendo i fili dei cadaveri legati alle dita con infantili nodi a fiocco.
«Chi sei?» urlò con voce acuta, isterica.
La bocca irta di denti si aprì mostruosamente, rivelando un tunnel oscuro dove un fioco puntino di luce brillava in lontananza.
«Vieni, Adrian,» gemettero i morti senza fermare la loro avanzata, «percorri il tunnel. In fondo, troverai la luce.»
«No!» rispose con voce tremante, incapace di muoversi da dove si trovava, «Non voglio!»
Il cadavere più vicino lo fissò stolidamente, una delle due orbite completamente vuota.
«Tu… devi.»
«No! No! Chi siete voi? Chi sei tu?»
Una profonda risata percorse la caverna, investendolo come un vento caldo e maleodorante.
Il quarto cadavere, evidentemente quello di una donna, allungò un braccio per afferrarlo.
«Vieni Adrian.»
«Vieni, percorri il tunnel.»
«Raggiungi la luce.»
«L’uomo nero ti aspetta.»
«L’uomo nero ti vuole.»
«L’uomo nero sa.»
Questa volta si svegliò appena in tempo, mentre ormai le mani marcescenti lo sfioravano, e si obbligò a restare calmo. Non voleva svegliare Rachel e spaventarla di nuovo, come la notte precedente.
Si alzò silenziosamente dal letto e andò alla finestra, scrutando nell’oscurità fuoristante. La pioggia non era ancora cessata, ma cadeva con meno vigore e intensità e i tuoni avevano cessato di ruggire nel cielo. Con il sorgere del Sole avrebbe potuto cessare del tutto di piovere, ma non era sicuro che questo avrebbe permesso loro di andarsene subito. Prima il livello d’acqua nelle strade sarebbe dovuto calare un po’. Avrebbero potuto dover rimanere in quella casa ancora per due o tre giorni, ma non poteva continuare a quella maniera. I sogni, già normalmente invadenti e inquietanti, erano terribilmente peggiorati da quando erano arrivati lì.
Rimaneva una sola cosa da fare, temeva, anche se l’idea non gli piacque per niente. Doveva vedere cosa ci fosse realmente dietro quella porta. Allora, forse, gli incubi sarebbero cessati.

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Seconda Parte
Mary Jane voltò lentamente la testa verso l’uomo, che la sovrastava con un’espressione d’indifferenza dipinta sul volto coperto di barba ispida in cui un solo occhio, verde e freddo come smeraldo, brillava nell’orbita. L’altra era buia e fonda nella penombra del viso, come quella di un teschio.
Il dolore iniziale era oramai sparito, tramutandosi in un soffice intorpidimento e, mentre il sangue scorreva sempre più lentamente dalla ferita sul braccio, le dita della mano che ancora si mossero leggermente, come a volersi stringere in un pugno di protesta.
Quando Mary Jane fissò il suo assassino nell’unico occhio non vide nulla più della medesima immagine che, ogni giorno della sua vita, si era riflessa nelle vetrine, nei parabrezza delle auto e negli specchi d’acqua in cui si era specchiata: ferocia e determinazione.
Non era inusuale che i cacciatori di teste fossero aizzati gli uni contro gli altri, ma sino a quel momento lei era riuscita sempre a scamparla, in un modo o nell’altro. “La Rossa”, la chiamavano, e veniva riconosciuta anche da chi ne aveva solo sentito parlare perché, al collo, portava una collana fatta con gli indici mozzati di coloro che aveva ucciso. Tagliava l’indice simbolicamente, a indicare che li privava del dito con cui avrebbero potuto premere il grilletto e, conseguentemente, ucciderla. Non che ci fossero ormai molte pistole funzionanti in giro. Non che Mary Jane conoscesse il significato di “simbolismo”.
Il cacciatore sorrise, mettendo in mostra una dentatura curiosamente ben curata in quel volto sporco, mentre premeva la canna della pistola al centro della sua fronte e uno scatto sordo ne annunciava la morte, una campana funebre infallibile.
Con una lentezza quasi soprannaturale la pallottola percorse la strada verso il suo cervello, mentre immagini tanto veloci da essere indefinite lo attraversavano per l’ultima volta.
Un uomo, da solo, che la portava in braccio attraverso tunnel gocciolanti e maleodoranti.
Un palazzo, alto e con l’insegna illeggibile, in cui si nascondevano decine di persone.
Uomini armati di mazze e un viaggio tra le rovine di una città.
Scale e vie che scorrevano rapide ai suoi lati, mentre fuggiva col fischio dei proiettili alle spalle.
La sua prima pistola.
Il nascondiglio nello sgabuzzino della stazione radio.
La carne cruda di cane strappata a morsi dopo una settimana di digiuno.
Una bottiglia colma d’alcol, prima piena e poi vuota, e un risveglio nuda e sanguinante.
Il suo primo omicidio.
La vita di un uomo per una bottiglia d’acqua potabile.
La sua testa fu spalancata dalla pallottola e ogni luce si spense.

Un buio impenetrabile e la sensazione di essere circondata da gente, moltissima gente, senza tuttavia poter vedere né toccare alcuno di loro, la pervase. Le parve di essere circondata da ombre viaggianti, rasentando la totale incoscienza, mentre un unico barlume di consapevolezza ancora ardeva in lei.
All’improvviso, il mondo riapparve in toni ombrosi color seppia. I palazzi che circondavano il luogo in cui era morta erano ancora lì, ma parevano disegnati da una matita grossolana che ne avesse evidenziato i tratti peculiari senza, tuttavia, soffermarsi nei dettagli. La luce era fioca e irreale, come con una consistenza propria attraverso la quale gli oggetti circostanti apparivano sfocati e anziché provenire dal Sole – che non era in alcun modo visibile in un cielo ocra e melmoso – sembrava essere emanata dalla terra stessa.
Mary Jane si voltò, con la testa leggera, e vide senza stupore se stessa riversa al suolo, un buco frastagliato al centro della fronte, come una stella nera. Anche il suo corpo appariva grezzo, privo di dettagli, la chioma rossa e disordinata quasi ridotta ad uno schizzo di colore, gli occhi completamente grigi anziché suddivisi in cornea, iride e pupilla. Il suo assassino, invece, non era più visibile.
Mentre era persa in queste osservazioni un’ombra cominciò a modellarsi davanti a lei, come staccandosi da una parete viscosa in cui fosse rimasta imprigionata. La sostanza, simile a denso catrame, si allungò sempre più mentre la figura emergeva con lentezza, staccandosi poi per tornare nel buio dal quale proveniva.
Di fronte a lei, ora, stava una creatura molto alta, come un uomo dal volto lungo con un cappello a cilindro sbilenco sulla testa. I suoi denti erano incredibilmente bianchi e aguzzi, i suoi occhi come braci ardenti, la sua pelle del colore dell’avorio e scintillante, come fosse stato fatto di metallo.
«Ah, Mary Jane.» le disse, mentre lei lo osservava priva di stupore. In quel momento non le parve né strano, né importante.
«Ho pensato di trattenerti un attimo, se non ti dispiace. Vorrei parlare di una cosa con te.»
Vagamente consapevole di essere morta, coinvolta in quel dialogo oltretombale, rimase in silenzio, attendendo il seguito.
«Tu hai sognato il Nord come tutti gli altri, vero?»
Ancora stordita da tutti quei cambiamenti di scenario, Mary Jane annuì sbilencamente.
Lui sorrise e lei poté vedere che aveva molti più denti di un normale essere umano. Quando aprì nuovamente la bocca per parlare apparvero in diverse file, come quelli di uno squalo.
«Bene. Sai cosa succederà stasera, mentre il tuo cadavere giace sulla terra?»
Lei fece per annuire; poi ci ripensò e fece spallucce.
«Qualcosa…» biascicò.
L’uomo fece una strana smorfia, come di risentimento, ma la cosa non la turbò particolarmente. Per quasi tutta la vita aveva sofferto la fame, la sete, il caldo, il freddo, il dolore e ogni tipo di privazione, sia fisica che psicologica. La sensazione di quiete e galleggiamento che provava in quel momento era quanto di più bello le fosse mai accaduto e nulla poteva turbarla.
«La luce, questa sera, brillerà con forza sopra le montagne, tagliando le nubi come un vento impetuoso.»
«Davvero?» chiese con voce impastata.
L’uomo, se così si poteva chiamarlo, annuì gravemente.
«Naturalmente, moltissimi risponderanno alla chiamata.»
Fece un gesto infastidito, come per scacciare una mosca, e riprese a sorridere.
«Ma bando alle ciance. Voglio proporti un accordo.»
«Sono tutta orecchi.» rispose lei, senza riuscire però a dare un tono chiaro alla sua voce.
«Tu sei morta. Questo lo sai. Stai per avere la tua seconda chance. Rinfocolerò la scintilla vitale in te e tornerai a respirare.»
L’uomo fece un sorriso talmente ampio che, per un momento, Mary Jane credette che volesse spalancare quella bocca mostruosa e inghiottirla in un solo boccone.
«Passerai per il crocevia, dolcezza. E tornerai. Se farai un lavoretto per me.»
Lei pensò a quel che stava dicendo. Poteva essere vero, ma non era affatto detto. D’altra parte, tutto appariva irreale.
«Be’, mia cara, hai due scelte. Accettare o proseguire. Se non accetti la mia proposta e decidi di andare avanti, rischi di andare dritta tra le fiamme eterne, e in questo caso rischi tutto.»
La fissò con i suoi occhi di fuoco e si passò una lingua nera e serpentina sulle labbra livide.
«A te la scelta» proclamò con voce sepolcrale.
I pensieri sembravano incastrarsi nel tentativo di procedere correttamente nella sua testa.
«Di che lavoro…?»
«Una sciocchezza, una cosa da nulla. Voglio che lo distruggi.»
Mary Jane aggrottò le sopracciglia, tentando di dare un senso a ciò che sentiva.
«Distruggere… cosa?»
L’uomo annuì, mentre un riflesso purpureo attraversava la sua pelle lucida.
«La reliquia, è ovvio. Quella che, dopo diciassette anni, è sorta dalla terra e ha lanciato il suo segnale luminoso, faro di speranza nella devastazione del mondo. Devi distruggerla. Non permettere che la gente abbia il tempo di adorarla. Distruggila.»
L’uomo inspirò profondamente, come a volersi calmare.
«L’idolo d’avorio dev’essere ridotto in polvere.»
Lei non poteva sapere se la sua proposta fosse vantaggiosa o meno. La minaccia di un al di là terribile era implicita nel dialogo allucinato che stavano avendo, ma poteva essere una menzogna. Semplicemente, non poteva saperlo.
«Come sai tutte queste cose, se stai qua?»
«Mia cara, io cammino allo stesso tempo su ogni mondo esistente. Io vivo nel corpo di molti abitanti di ognuno di essi e vedo e sento e conosco.»
Le sue spiegazioni le sembrarono mistiche e vagamente attinenti a qualche religione, ma non era in grado di ragionarci su né, in fondo, le interessava farlo.
«Accetto.»
«Molto bene!» rispose l’uomo con fare allegro e inquietante al tempo stesso.
«Allora ti rimanderò indietro e tu farai questo lavoretto per me. Non preoccuparti, non sarai sola nel tuo viaggio. Altri sono stati chiamati.»
Si avvicinò e le diede un bacio sulle labbra, freddo come il ghiaccio.
«A rivederci.» le disse, mentre lei sentiva gli arti appesantirsi e i pensieri riordinarsi.

Si svegliò al calar della sera, là dov’era morta.
Il sole era quasi completamente sparito dietro l’orizzonte contorto di palazzi e ponti e i suoi raggi infuocati fendevano i gas ondeggianti che fuoriuscivano dalle rovine.
Aveva un forte mal di testa, ma una forza nuova le animava le membra e riuscì a mettersi a sedere, poggiandosi contro un idrante con la schiena.
Si portò automaticamente una mano al fianco, ma la pistola non c’era più. Erano spariti anche il cappello e le scarpe, la giacca, i pantaloni, tutto quel che aveva in tasca e la bisaccia. C’era da stupirsi che le avessero lasciato i vestiti, in genere i cadaveri venivano completamente denudati e, talvolta, persino mangiati.
La situazione non era comunque felice. Si trovava all’aperto, a pochi minuti dal calar del buio, senza armi, senza scarpe, cibo né qualcosa con cui coprirsi contro il freddo, in una zona piuttosto pericolosa delle rovine di Square Town.
Improvvisamente si ricordò della ferita al braccio e la toccò inconsciamente, sentendo umido ma senza provare dolore. Era rossa e lucida, ma aveva smesso di sanguinare. La camicia a quadri che ancora indossava era inzuppata di sangue e sudore e la manica del braccio ferito era squarciata. L’estremità staccata le era scivolata verso il polso, come uno strano guanto.
Se la sfilò e si alzò faticosamente in piedi, ma una fitta alla testa le sdoppiò davanti il mondo per un attimo.
Si portò la mano alla fronte e sentì chiaramente il foro del proiettile. La ferita era chiusa, ma la pelle che le copriva era spessa, ruvida, e attorno aveva una strana consistenza, come fosse stata bruciata.
Si sollevò a fatica, con le gambe che tremavano leggermente, e si avvicinò alla finestra sporca di un palazzone che sorgeva a pochi metri da lì, recante la scritta sbiadita “Hotel”.
Ripulì il vetro con la manica e si specchiò, tentando di distinguere se stessa dal profilo di ciò che stava dentro all’edificio. Le sue dita avevano visto giusto: il foro, perfettamente al centro della fronte, leggermente più in alto rispetto alle sopracciglia, si era richiuso, ma era nero e simile a una cicatrice, circondato da una bruciatura irregolare del medesimo colore e consistenza. L’effetto finale era quello di una sorta di tatuaggio, come una stella infuocata nera.
In ogni caso era viva, con la testa chiusa e il braccio a posto, quindi non poteva lamentarsi più di tanto. L’urgenza, in quel momento, era trovarsi un riparo.
L’albergo e gli edifici circostanti erano fuori discussione, in quanto ospitavano notoriamente bande di sciacalli e assassini e, nel migliore dei casi, animali feroci. Non sapeva di mutanti nella zona, ma non si poteva mai dire. Certo non poteva rimanere in strada, avrebbe fatto prima a spararsi un altro colpo in testa, se avesse voluto morire.
Si guardò attorno, pervasa dal senso di urgenza, mentre le ultime luci si spegnevano sulle vetrate dei grattacieli e la città piombava nella penombra. All’orizzonte c’era ancora una striscia di luce, abbastanza forte da rendere invisibili le stelle, e una pallida falce di luna faceva capolino sotto l’arco di un ponte crollato.
In lontananza udì il ruggire cupo di qualche grosso felino, probabilmente una tigre, e seppe di avere pochissimo tempo a disposizione per trovarsi un riparo sicuro.
Si guardò freneticamente attorno e notò un grande bidone della spazzatura. Si avvicinò e lo aprì, accolta da una zaffata putrescente, ma vide che l’interno era praticamente vuoto. I bidoni della spazzatura erano stati già setacciati da moltissimo tempo e quel che vi veniva lasciato dentro era in genere completamente inutilizzabile. Il forte odore era causato dal bidone stesso, dato che l’interno era macchiato di sporcizia, il cui fetore era alimentato dal calore e dalla pioggia. In un angolo vi erano persino alcuni piccoli funghi che spuntavano tra le lattine ritorte e i lembi di qualcosa d’indefinibile simile alla plastica.
Senza pensarci due volte si calò al suo interno, chiudendosi il coperchio dietro. Sprofondò nel buio e nella puzza, ma almeno era nascosta e il suo odore era coperto. Scostò coi piedi la spazzatura da un lato e si rannicchiò.
Se fosse sopravvissuta alla notte si sarebbe potuta dirigere in un luogo abitato e rimettersi in sesto. Poi avrebbe deciso il da farsi.
Tentando di ignorare i rumori all’esterno, il mal di testa e il fetore, chiuse gli occhi e dormì.

Al suo risveglio, il calore era insopportabile.
In pochi secondi decise che, piuttosto che sopportare ancora quel caldo e quella puzza, sarebbe stato meglio regalare una gamba a qualche animale.
Si alzò e spalancò il coperchio senza nemmeno guardarsi attorno, saltando fuori e respirando con ampie boccate l’aria esterna. Forse non era pulita, forse era percorsa da radiazioni invisibili e inodori, ma almeno sembrava lo fosse.
Il sole era alto nel cielo, all’incirca a metà del ciclo giornaliero, e banchi scuri di nuvole si stagliavano all’orizzonte, a Nord. La temperatura era terribilmente elevata e dovette correre al riparo dell’ombra di un palazzo per evitare di scottarsi le piante dei piedi con l’asfalto rovente.
Si guardò attorno, circospetta, e scorse un corpo senza vita a poca distanza dal suo improvvisato e maleodorante rifugio notturno.
Fece una corsa sin lì, si tolse la camicia e la mise per terra, salendovi coi piedi. Sembrava di stare sopra a una stufa, tanto era il calore che emanava.
Si chinò sul corpo, lanciandosi prima un’occhiata alle spalle, e gli frugò nelle tasche dei pantaloni. Vuote. I suoi vestiti erano inutilizzabili, dato che erano completamente squarciati e impregnati di umori fuoriusciti dal petto, orribilmente dilaniato, con i resti delle viscere masticate che ne spuntavano. Qualche grosso animale doveva averlo sorpreso durante la notte.
Addosso non aveva altro se non quegli stracci inutilizzabili e anche lui, come lei, era a piedi nudi. Ciò significava che gli sciacalli erano già passati di lì e che potevano essere ancora nelle vicinanze. Era stata una fortuna che non fosse venuto loro in mente di aprire il bidone.
Si rinfilò la camicia e tornò all’ombra dei palazzi. Non sapeva ancora bene da che parte andare, perché i pensieri nella sua testa erano ancora un po’ confusi, sommersi da un’emicrania pulsante, ma l’istinto le consigliava di allontanarsi. Presto altri animali sarebbero accorsi al richiamo della carne putrescente ed era meglio non incontrarne alcuni particolarmente pericolosi.
Camminò per alcuni minuti, fermandosi solo un attimo presso una pozza di acqua stagnante per bere un po’ e raggiunse il limitare della città.
In quel momento un rumore di voci ruppe il silenzio scricchiolante delle rovine, così si infilò rapidamente dentro a un’automobile con le portiere divelte. Scavalcò il sedile e si sdraiò davanti ai sedili posteriori, in modo da non essere visibile dall’esterno.
Le voci si avvicinarono rapidamente e a esse si unì un rumore sferragliante, accompagnato da dei lamenti.
«Muoviti!» imprecò una roca voce maschile, seguita dal rumore di uno schiaffo e da un gemito.
Doveva trattarsi di schiavisti. Erano gente spietata, che perlustrava le città e le campagne in cerca di persone indifese da catturare e rivendere al fiorente mercato di Silver Chess.
Lei stessa aveva partecipato, alcune volte, a delle cacce allo schiavo, ma si era stufata in fretta. Non lo aveva trovato divertente quanto uccidere su commissione, che era una delle cose che le venissero meglio.
«Jack!» urlò una voce.
«Che cazzo vuoi?»
«Il cane!»
Un uggiolio e un ringhio seguirono la sua risposta.
«Cos’ha quel bastardo?»
«Sente qualcosa!»
Mary Jane si rattrappì di colpo, consapevole che quel qualcosa era lei. L’intenso odore di putrefazione che portava addosso doveva essere come un faro nel buio, per il cane degli schiavisti.
Sentì i loro passi avvicinarsi e il cane raspare contro la portiera della macchina. Contrasse i pugni e si preparò a reagire.
«Bene, bene. Guarda cosa abbiamo qui.»
Una mano le afferrò i capelli e allora lei reagì in quel modo che aveva contribuito, tra gli altri suoi “pregi”, a renderla famosa.
Tese le braccia e afferrò l’uomo per il bavero, tirandolo di colpo. Senza rendersi immediatamente conto di ciò che stava accadendo, lo schiavista non fece resistenza e batté con forza la testa contro il tettuccio dell’auto, facendo rimbombare la lamiera. Senza dargli il tempo di sentire il dolore del colpo lei si girò sulla schiena e gli schiacciò con il tallone la mano con la quale l’aveva afferrata per i capelli, spaccandola di netto con un rumore di rami secchi.
L’uomo urlò, arretrando e tenendosi il polso con l’altra mano. Errore fatale: in quel modo non aveva armi da utilizzare contro di lei. Con un balzo felino uscì dalla macchina, colpendolo con una ginocchiata all’inguine.
L’urlo gli si strozzò in gola e cadde in ginocchio, senza più sapere da che parte girarsi.
Lei fece per colpirlo ancora, quando sentì il metallo freddo contro la nuca.
«Fantastico, bellezza. Ora, però, datti una calmata.»
Qualcuno le passò il braccio intorno al collo e la tirò a sé, mozzandole il fiato, mentre la canna della pistola non si spostava dalla sua testa.
«Appena avrò un secondo a disposizione, ti ammazzerò» ringhiò lei, senza tuttavia arrischiarsi a reagire.
Il cane si avvicinò all’uomo a terra, che respirava affannosamente, e restò come perplesso per ciò che era accaduto.
Quello che la teneva sotto tiro rise.
«Stupido cane inutile! Non sei nemmeno buono a proteggere il tuo padrone. E tu, padrone, ti fai mettere sotto da una ragazzina. Guarda che roba.»
«Morditi la lingua, feccia. Io non sono una ragazzina.»
«Ehi, ma dico, un po’ d’educazione, piccola…»
Si interruppe un attimo, allentando leggermente la presa.
«Mary Jane?» chiese infine lo schiavista, esitante.
L’uomo a terra, in parte ripresosi dal trauma, sollevò la testa verso di lei con un’espressione a metà tra la sofferenza e lo stupore.
«Brutta stronza…» riuscì ad esalare.
L’uomo la lasciò andare.
Lei si voltò verso di lui e riconobbe Finger Bob, un vecchio compagno di scorribande che aveva perso anulare e indice di una mano durante una caccia allo schiavo. Gli era però rimasto il fotti-dito, uno dei più importanti.
«Mary Jane!» ripeté lui, visibilmente felice di vederla, «Merda, non ti avevo riconosciuta. E tu non hai riconosciuto me e quell’idiota di Jack, direi, o non l’avresti spappolato a quel modo.»
«Mi ha afferrata per i capelli.»
«Capisco.» rispose lui con indifferenza, aiutando il menomato Jack a rialzarsi.
A quel punto Finger Bob la guardò nuovamente.
«Cosa ti è successo? Sei senza scarpe, senza armamentario… non ti ho mai vista senza la tua pistola e il tuo coltello.»
«Ho avuto un incontro ravvicinato con Lazy Tom.»
Finger Bob fece un fischio.
«Lazy Tom, hai detto? Il Ciclope? Quello che ha ammazzato dieci uomini a mani nude nella gara mortale tra schiavi nella gabbia e ha vinto la propria libertà?»
Mary Jane sbuffò.
«Solo una stupida leggenda.»
«Be’, non ti invidio comunque. Però non è riuscito a farti fuori, alla fin fine.»
«In un certo senso.»
Un gruppetto di quattro orientali, un uomo, una donna, una ragazzina e una vecchia, probabilmente una famiglia, aveva seguito in rassegnato silenzio il loro dialogo. Erano legati con corte catene che assicuravano loro i polsi al collo di chi precedeva, formando una fila piuttosto lenta nei movimenti a causa del poco spazio che li divideva li uni dagli altri.
«Dove porti questi schiavi, Bob?»
«A nessuno frega un cazzo che questa mi abbia fracassato una mano?»
«Fondamentalmente no, Jack. Se non vali una cicca non è certo colpa nostra. A Silver Chess, Mary, li portiamo al mercato.»
«Perfetto. Mi unisco a voi nel viaggio, allora. Ho un conto in sospeso, a Silver Chess.»

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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 3“]Coming Soon…[/ecko_toggle]

GIuseppe Zetta

Il mio pseudonimo è Giuseppe Zetta aka Zell Ho la passione per l’informatica, nata all’età di 6 anni, quando ho avuto a che fare per la prima volta con un Commodore64, appassionato di Intelligenza Artificiale, Sviluppo di Videogiochi e Tecnologie OpenSource. Porto avanti progetti informatici personali con i miei amici di vecchia data, ed ho svariate passioni che variano dall’arte del DJ al video editing passando fino alla produzione musicale.

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