Grey Five – Mondi che collidono

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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 1“]Duke Gallagher sedeva sprofondato nella sua poltrona magnetica dal colore quanto mai improbabile, spingendosi lievemente da destra a sinistra con una gamba, mentre l’altra era accavallata. Gli indici erano congiunti sulle labbra, a stuzzicare i baffi ispidi striati di grigio e gli occhi castani e acquosi erano fissi sulla scrivania senza veramente vederla.
Davanti a lui, seduto compostamente, con la borsa di ecofibra dall’aspetto professionale e costoso posata sulle ginocchia, attendeva in educato silenzio Joseph Killington, rappresentante della più grande azienda della storia, la Triple W. Posati sul naso, all’apparenza incollati, portava quelli che erano i più moderni e discreti occhiali multiuso che Gallagher avesse mai visto, un gioiellino della tecnica composto da due lenti prive di stanghette che si accomodavano con naturalezza sul volto dell’acquirente e fungevano, a seconda della necessità, da visori notturni, da protezione da raggi solari, polveri e pollini e, naturalmente, da correttori della vista.
Sulla sua scrivania, circondata da soprammobili polverosi rimediabili per pochi crediti a qualunque mercatino dell’antiquariato, da foto di famiglia e da un interfono decisamente antidiluviano, spiccava in bella evidenza una ololettera della Corte Suprema, con la sua elegante trama in stile papiro e il suo stemma verde e rosso dall’aria intricata proiettati come sfondo al testo.
«Così…» si decise finalmente a dire Gallagher, «così la Triple W ha bisogno di un altro gruppo di sacrificabili.»
Killington abbozzò un sorrisetto e fece per aggiustarsi gli occhiali sul naso, un tic dal quale ancora non si era liberato.
«Se le garba identificarli con questo termine. Semplicemente, la Triple W ha necessità lavorative di un certo tipo e chi meglio di un ergastolano potrebbe apprezzare la possibilità datagli?»
Gallagher fece un risolino secco. Si sentiva un raspo in gola e aveva una tremenda voglia di sputare. Gli inviati della Corte Suprema gli facevano sempre quell’effetto.
«Ha una bella faccia tosta a chiamarle “necessità lavorative”, signor Killington…»
«Dottore, prego.»
Gallagher gli lanciò un’occhiata che normalmente si sarebbe potuta riservare a qualcosa di sgradevole spiaccicato sulla strada, ma il suo ospite non fece una piega.
«Dottor Killington,» si corresse calcando quel “dottor” con sarcasmo, «dato che li mandate a farsi ammazzare. È un fatto risaputo.»
Di nuovo quel sorrisetto.
«Come ho detto poco fa, se le garba vederla a questo modo. Ma non credo che questo scambio di pareri sia la prassi, lei non crede? Ho con me una regolare lettera della Corte Suprema, che mi autorizza a prelevare i prigionieri rispondenti ai seguenti numeri di matricola: da 0013463 a 0013469 e da 0013477 a 0013490. Ciò rientra nella normale prassi di commutazione della pena a vita in servizi socialmente utili. Ciò che ne sarà poi di loro non è di sua competenza.»
Gallagher compresse le labbra fino a farle sparire dietro i baffi a spazzola.
Gli inviati della Corte Suprema erano già di per sé di una spocchia insopportabile, ma quelli che si muovevano per conto delle grandi aziende con il benestare della Corte erano semplicemente meritevoli della castrazione chimica.
Oramai erano settantacinque anni che la pena capitale era stata abolita anche nell’ultimo angolo imbarbarito del globo e dopo soli dieci anni il problema del sovraffollamento delle carceri era divenuto talmente pressante da costringere i governi a escogitare una qualche misura per salvare i soldi pubblici e, soprattutto, le poltrone. Una crisi economica di dimensioni mondiali aveva rimpolpato la fascia dei poveri e aveva dato avvio a una nuova ondata di crimini, il che aveva fatto inevitabilmente crescere – le statistiche non mentivano – il numero di quelli puniti con l’ergastolo.
Non c’era voluto molto perché la soluzione fosse rispolverata: lavori socialmente utili. Considerato il costo di mantenimento di un carcerato, si era ritenuto che farli lavorare nei settori più umili e faticosi fosse una gran bella pensata. Si riteneva che non solo i galeotti si sarebbero ripagati il costo di vitto e alloggio a spese dello Stato, ma che si sarebbero anche potuti usare quei soldi per finanziare la costruzione di nuove strutture carcerarie di basso livello, in modo da dividere gli assassini dagli scippatori e gli stupratori da truffatori e cyber-criminali.
Così, i carcerati si erano tramutati durante il giorno in posatori di linee magnetiche, facchini, manutentori di strutture fognarie e netturbini; durante la notte in ospiti dello Stato in strutture con le sbarre alle finestre e le guardie alle porte.
Nel giro di due anni, il settantotto percento delle aziende che si occupavano di posatura e manutenzione di linee magnetiche, di trasporto merci, di raccolta dei rifiuti e così via era fallita, lasciando a casa decine di migliaia di dipendenti. In un mondo con ventidue miliardi di abitanti, la conseguenza era stata inevitabile e la protesta era stata così forte che il governo aveva dovuto cessare immediatamente quella pratica, o le poltrone sarebbero scivolate via alla velocità della luce da sotto gli inamidati deretani.
A quel punto la Triple W, che da alcuni anni era divenuta la punta di diamante dei contribuenti di tutto il mondo, aveva fatto una proposta. Una proposta che non si poteva rifiutare.
Siccome l’azienda si occupava, tra le altre cose, di esplorazioni spaziali, insediamenti sperimentali, studi scientifici ed estrazioni minerarie in tre sistemi oltre quello solare, e ciò comportava altissime spese in termini di macchinari e uomini e spesso la perdita di entrambi in seguito agli incidenti più svariati, un dirigente particolarmente astuto aveva pensato: perché perdere astronauti, tecnici e scienziati di ogni tipo, che richiedono anni di preparazione e montagne di denaro, quando si potrebbero inviare nelle missioni pericolose individui sacrificabili?
E così la pena di morte era rientrata dalla porta di servizio, ma questa volta estesa a tutti. La politica aveva giocato la vecchia carta del cambiar nome alle cose, lasciandole fondamentalmente inalterate.
Qualunque detenuto, quale fosse stata la pena da scontare, aveva la possibilità di partecipare volontariamente a una missione catalogata come di pericolosità medio-alta e ottenerne, in cambio, una riduzione più o meno consistente della pena. Sempre se fosse sopravvissuto. Per quanto riguardava i condannati a uno o più ergastoli – e l’ergastolo era oramai divenuto per davvero lungo sino alla morte – questa possibilità era negata, in quanto l’incarcerazione a vita era prevista solo in casi particolarmente gravi e si riteneva non fosse accettabile che un imputato per omicidio plurimo, per esempio, avesse la possibilità di veder ridotta la propria pena.
Esistevano, però, casi particolari, in cui la Triple W introduceva richiesta alla Corte Suprema di poter utilizzare degli ergastolani per missioni definite “ad altissimo rischio” e, quasi sempre, veniva concesso il permesso di prelevare gli ospiti più costosi e pericolosi dalle carceri di massima sicurezza per mandarli a morire al macello.
Gallagher sapeva di dover consegnare gli uomini richiesti e di non aver alcun diritto di opporsi, ma non gli piaceva ciò che accadeva. Non che il problema fosse di tipo morale, legato alla crudeltà dell’operazione o al fatto che la potenza economica della Triple W fosse tale da piegare con facilità la Corte Suprema al proprio volere, impiegando esseri umani come attrezzi da basso costo. Ciò che lo disturbava era piuttosto il fatto che a un ergastolano venisse data una possibilità di uscire di galera. Nel suo intimo, era convinto che rimanere rinchiusi per il resto della propria vita in uno spazio angusto, mangiando male e subendo i soprusi dei compagni di carcere, venendo annichiliti psicologicamente e uniformati a una sub-società imbarbarita, fosse la punizione perfetta. Persino morire non era paragonabile, non si soffriva abbastanza. Non c’era cosa che distruggesse un uomo come un carcere di massima sicurezza e, anche se era decisamente improbabile che un individuo impiegato in una missione ad altissimo rischio sopravvivesse, quel barlume di speranza lo infastidiva terribilmente.
Sprofondò ulteriormente nello schienale della poltrona girevole e fissò Killington con fare inquisitorio.
«E a cosa vi servirebbero, esattamente, questi prigionieri?» chiese con fare indagatore.
Il suo ospite si limitò a sorridere.
«Come ben sa, ciò non è di sua competenza.»
Gallagher fece un gesto infastidito, come per scacciare una mosca.
«So bene quanto la Triple W ci tenga alla riservatezza e bla bla bla… so anche di non potermi opporre alla consegna. Ma potrei darvi dei problemi, rallentare la pratica, e l’azienda perderebbe tempo prezioso.»
Killington rimase impassibile.
«Se lo crede. Una settimana dovrebbe essere sufficiente ad avere un nuovo direttore del carcere di East New Talburgh. Lei cosa ne dice?»
Gallagher compresse nuovamente le labbra.
«Forse un paio di settimane.»
«In realtà credo che tre giorni sarebbero sufficienti, se non fosse imminente il week-end.»
Gallagher alzò le mani.
«D’accordo, d’accordo. Era tanto per sapere.»
«Sapere non è…»
«…di mia competenza, come dice lei. Ho una cattiva notizia, però. Il detenuto 0013469 è deceduto l’altro ieri. Attacco cardiaco.»
Per la prima volta, sul volto di Killington trasparì una punta di fastidio.
«Signor Gallagher, la avverto che se è un giochetto per rimandare il fatto, io…»
«Nessun giochetto,» lo interruppe Gallagher, «è la verità. Il detenuto un tempo conosciuto come Robert Mitchell è deceduto alle tredici in punto di mercoledì sette Ottobre tremilaquattrocentodue, anno domini. Lo vuole anche secondo il calendario cinese o il fuso orario di Panama?»
Killington corrugò la fronte.
«Molto divertente, signor Gallagher, davvero spiritoso.»
Gallagher, che nella vita aveva conosciuto e applicato l’ironia tanto quanto era andato a caccia di caimani a mani nude, sorrise con denti finti e stranamente bianchi nel volto olivastro e rugoso.
«Ciò non toglie che la faccenda crei dei problemi all’azienda. Ho una scadenza di cinque giorni per prelevare ventuno detenuti da questo carcere, la missione è molto urgente.»
Gallagher, che nella vita aveva avuto due ulcere e tre mogli, due delle quali contribuivano non poco a ridurre l’ammontare del suo stipendio e la terza che probabilmente aspettava solo di unirsi a loro, pensò che non gliene fregava proprio un cazzo dei problemi di Killington. E non gliene fregava un cazzo nemmeno della Triple W.
«…qualcun altro?»
Gallagher si riscosse.
«Scusi, mi sono distratto un attimo. Diceva?»
«Dicevo: ha per caso sottomano qualcun altro? Un ospite particolarmente sgradito di cui potrebbe sbarazzarsi senza che nessuno venga a lamentarsi?»
Gallagher cominciò a tamburellare con le dita sulla scrivania.
Era il colmo. Quel leccapiedi di dottorucolo adesso gli chiedeva aiuto. A lui! Nemmeno un minuto prima lo aveva minacciato di farlo sostituire, e adesso gli chiedeva una mano!
«Guardi, non credo che…»
Si interruppe di colpo. In realtà, qualcuno c’era.
Sorrise inconsciamente e Killington lo imitò.
«Direi che qualcuno le è venuto in mente.»
«Forse» rispose lui titubante, premendo un pulsante sulla scrivania.
Apparve un’immagine bidimensionale grande come la copertina di un tascabile, che fluttuò a mezz’aria proiettata da una lente installata a lato del pulsante. Chi l’avesse guardata da un lato non avrebbe visto alcunché e chi da dietro l’avrebbe vista rovesciata specularmente, ma dalla posizione di Gallagher era come fissare un piccolo televisore a colori con un leggerissimo effetto neve.
Il volto della sua segretaria, una donna di mezz’età che avrebbe distrutto in un istante qualunque fantasia sessuale su direttori che scopano le dipendenti nella pausa caffè, lo squadrò con occhi miopi dietro un paio di occhiali antidiluviani dalle lenti triangolari.
«Signorina Radish? Mi porti i dati del prigioniero Grey Five, per cortesia.»
«Arrivo, signore.»
L’immagine si spense.
«Grey Five?» chiese Killington alzando le sopracciglia.
Gallagher annuì.
«Il carcere è diviso in sezioni, ognuna delle quali è indicata con un colore e un determinato numero di celle. Grey Five alloggia nella cella cinque della sezione grigia, per l’appunto. È molto più rapido e semplice da ricordare del numero di matricola.»
«Ne convengo. Anche se non è ufficiale.»
«Mi pare logico» ribatté irritato Gallagher.
In quel momento la porta si aprì e Miss Radish si avvicinò alla scrivania, ignorando completamente Killington e tendendo una scheda magnetica al direttore. Lui la prese con un grugnito e fece un cenno del capo alla segretaria, che si ritirò rapidamente.
«Donna squisita Miss Radish, lei non trova?» commentò infilando la scheda in una fessura della scrivania.
«Se lo dice lei.»
«Sapeva che quell’adorabile signora colleziona farfalle?»
«Interessante…» replicò in tono annoiato Killington.
«Dicono che a letto si rifaccia del suo aspetto.»
«Come dice?»
«Niente.» rispose Gallagher digitando un codice su di una tastiera virtuale apparsa davanti a lui, «Ecco, guardi.»
«Come mai non avete un unico database?»
«A causa dell’ultimo decreto sul trattamento dei dati sensibili. Sono costretto a chiamare la segretaria per accedere a qualunque profilo, in modo che ci sia almeno una seconda persona ufficialmente a conoscenza del fatto che sto leggendo – mi viene da ridere – dati personali.»
Killington sorrise e osservò l’immagine apparsa davanti a lui. Lanciò un’occhiata fulminante a Gallagher, che rimase impassibile.
«Cos’è, un altro scherzo?»
«Niente affatto. Grey Five corrisponde perfettamente al vostro criterio di scelta degli elementi per le missioni ad alta pericolosità.»
«Su questo ci sarebbe da ridire.»
«Legga la scheda, prego.»
«Rapimento di minorenne, incendio doloso, omicidio plurimo. C’è un nove tra parentesi.»
«Esattamente.»
«Sì, ma…»
«Lei teme per gli standard fisici, giusto?»
«Sì. Senta qua. Altezza: centosettantanove centimetri. Peso: sessantotto kilogrammi. Età: venticinque anni. Converrà con me che non è proprio un fusto.»
Gallagher fece spallucce.
«E allora? Tanto è carne da macello. In ogni caso, voi non fornite tute speciali, potenziate, per questo tipo di missioni?»
«Sì, certo, ma…»
«Quindi la stazza non è così importante.»
«Va bene,» si arrese Killington, «il prigioniero 0013552 sostituirà il 0013469. Almeno la missione potrà partire nei tempi prestabiliti.»
«Molto bene.» disse Gallagher premendo nuovamente il tasto sulla scrivania.
L’immagine della segretaria apparve nuovamente a mezz’aria.
«Signorina Radish? Faccia portare i detenuti segnati sul suo promemoria nel mio ufficio e faccia uscire dall’isolamento Grey Five. Li voglio tutti qua in dieci minuti.»
«Sì, signor Gallagher.»
L’immagine si spense nuovamente.
«Isolamento?» chiese Killington.
«Sì. Due settimane fa, Grey Five ha quasi ucciso una guardia. Sei mesi di isolamento.»
Killington sollevò le sopracciglia.
«Pensavo che in queste strutture di sicurezza i detenuti non avessero accesso ad alcun tipo di oggetto che possa essere usato come arma.»
Gallagher annuì.
«Infatti. Grey Five ha aggredito una delle guardie durante l’ora d’aria mordendola al volto. Il poveraccio avrà bisogno di un naso nuovo.»
«Capisco. Dopotutto, forse fa per noi.»
Gallagher sorrise.
«Ne sono certo.»
Killington si alzò, si passò una mano sulla giacca per stirarla per bene e poi la tese al direttore, che la strinse mollemente.
«Signor Gallagher, è stato un piacere. Grazie per la collaborazione.»
«Ma si immagini» replicò lui con un sorriso bianco e plasticoso.
Quando Killington fu uscito, Gallagher emise uno sbuffo.
Per quanto odiasse tutto ciò che era appena accaduto, liberandosi di Grey Five e non accontentando la Triple W alla perfezione sentiva di aver ottenuto una piccola vittoria.

Umani

Cal Zhou premette la sequenza di dodici cifre sul pannello medico della sua abitazione, strizzando gli occhi nel copiarlo dal proprio dispositivo portatile ottico. Negli ultimi giorni gli era parso che numeri e lettere apparissero sfocati, come se ci fossero dei problemi di risoluzione o trasmissione. O forse era solo il suo occhio a essere spompato, esattamente come il resto del suo corpo.
Dal tubo pneumatico giunse un basso segnale acustico e la luce che ne irradiava da rossa divenne verde. Cal aprì lo sportello e prese la confezione di nanobot gastrici, di un bianco asettico con scritte di quel verde che non poteva non far pensare ai corridoi d’ospedale. Prese il bugiardino e lo gettò a terra, dove il disco autopulente si precipitò a raccoglierlo con un rumore crocchiante di carta; i nanobot gastrici – ng23s, specificava la scatola – erano quattro, ognuno con un’autonomia di quarantotto ore.
Ne pizzicò uno tra le dita e lo guardò da vicino. Sembrava una caramella mou, sia per il colore che la forma, ma se si usava sufficiente attenzione si potevano distinguere le minuscole righe che definivano le innumerevoli zampette di cui era dotato. Se lo mise in bocca e lo inghiottì con un bicchiere d’acqua microfiltrata classe due, stando bene attento a non prenderne più di un paio di sorsate. Con quel che costava, non fosse stato attento sarebbe stato costretto a passare alla classe tre o alla quattro nel giro di poche settimane e lui non sopportava il sapore di fango o, peggio, di cloro che avevano. Ora che era stato congedato, poi, la questione soldi era particolarmente spinosa.
Il telefono squillò e alla sua sinistra apparve un’immagine circolare, come un oblò illuminato d’azzurro contenente una bionda dai verdi occhi a mandorla.
«Chiamata da calypso80» lo avvertì con voce sensuale l’apparecchio.
Cal si passò le mani tra i capelli sporchi e disordinati e sospirò.
«Accetta solo con output audio.»
L’immagine svanì e al suo posto il vero volto della ragazza che lo stava chiamando apparve, con sullo sfondo una finestra affacciata su Nuova Hong Kong.
«Cal?» chiese lei facendo saettare gli occhi da un lato all’altro, come a cercarlo.
«Ciao Ai,» rispose lui con voce falsamente allegra, «scusa ma ho un problema alla cam. Non riesce a trasmettere le immagini.»
Ai fece una smorfia contrariata, ma non replicò.
«Dimmi tutto.» disse lui per riempire il silenzio.
«Sono due giorni che tento di parlarti.»
«Sono stato impegnato.»
«A fare cosa? A lavorare?» chiese lei con tono di scherno. Fece quindi un’altra smorfia.
«Scusa, non volevo infierire. È che mi scoccia che tu non abbia voluto parlarmene.»
«Non c’era molto da dire…»
«Ma che dici, dopo undici anni che eri nei marine!»
«Non è colpa loro, non avrebbero potuto fare altrimenti.»
«Avrebbero potuto spostarti alla sezione amministrativa, lontano dalla battaglia!» replicò lei agguerrita.
«Sono io che ho rifiutato, loro me l’avevano proposto.»
Nel corpo ICE – interstellar combat élite – dei marines ricopriva la carica di sottotenente, non propriamente una stella delle forze armate, e data la sua giovane età disponeva di un premio di congedo davvero ridicolo. Con la cifra che gli passava mensilmente il governo non avrebbe potuto pagarci nemmeno l’affitto e per un ex soldato colpito da PSTD come lui entrare nelle forze private era da escludersi.
Gastrite nervosa, tremori alle mani, bruxismo… l’unica cosa che avrebbe potuto fare sarebbe stato lavare i cessi, nell’esercito. Oppure stare dietro alle scartoffie. Eppure, non sapeva far altro. A dodici anni era entrato nell’YMG, che preparava gli adolescenti a diventare marine veri e propri a sedici, e ora che ne aveva ventitré e si trovava in mezzo alla strada era dolorosamente consapevole di non saper cucinare nemmeno un uovo, di non essere in grado di montare un deco-mobile o usare un bioterminale al di fuori di quelli militari di base.
«Hai rifiutato? E perché?»
«Come perché! Mi ci vedi tutto il giorno per il resto della mia vita seduto a una scrivania a gestire un database militare, firmare permessi, vidimare documenti…»
«Ma come farai senza lavoro?»
«Qualcosa troverò!»
Avrebbe potuto partecipare a uno di quei corsi di flash learning, diventare un tecnico di livello zero per interfacciarsi con le macchine industriali o imparare ad usare le bioapplicazioni edili per andare a fare il galoppino di qualche costruttore professionista.
Ma cosa andava dicendo? Lui, Cal Zhou, il terrore degli incursori karankatul, che aveva partecipato all’abbordaggio di ben tredici navi d’appoggio nemiche, ridotto a manovrare uno stupido artiglio selettore in una qualsiasi fabbrica di aero-capsule? Si era forse bevuto il cervello?
Una leggera puntura alla bocca dello stomaco gli segnalò che il nanobot gastrico era entrato in funzione. Il suo compito era di agire specificamente sulle aree danneggiate e infiammate dello stomaco, in modo da evitare una cura generica che andasse ad incidere anche sui tessuti sani. Per un paio di giorni sarebbe rimasto a galleggiare nei suoi succhi gastrici, ricucendo le micro-ulcere in via di formazione e attenuando l’infiammazione, bilanciando il pH dell’ambiente in cui si trovava. Poi la sua corazza proteica si sarebbe sfaldata e sarebbe stato a sua volta digerito.
«Qualcosa troverai? Cal, per l’amor del cielo, ma cosa? Come pagherai l’affitto? Io non posso aiutarti, lo sai che ho ancora due anni di specializzazione medica e che quel che mi passano i miei a malapena basta per le mie spese. Meno male che sono riuscita ad avere quella borsa di studio, sennò nemmeno i pantaloni sarei riuscita a comprarmi!»
«Manderò un po’ di curriculum in giro.»
«A chi? Ai rivenditori di pillole alimentari? Come supervisore degli impianti delle classi d’acqua?»
Sarebbe potuto entrare in un corpo di vigilanza privato. Anche se stressato, aveva requisiti certamente superiori a tutti quegli sfigati che ne facevano parte, scartati da esercito e forze dell’ordine ma smaniosi di detenere un potere basato sulla forza, di assaporare la sensazione d’invincibilità data dalla pistola a percussione fonica nella fondina e dal taser alla cinta.
Sospirò, forzandosi a rilassare la mascella. Si stava distruggendo lo smalto, a furia di digrignare i denti.
«Potrei fare le ronde attorno alle ville dei ricconi o nei quartieri bene, sai, per prevenire i furti a negozi e abitazioni…»
«Un corpo di vigilanza privato, quindi… Cal, davvero, tu meriti ben altro!»
«M-m-ma n-non…»
Si morse la lingua, bloccando il tremito che lo aveva preso. Respirò una, due, tre volte profondamente, finché non ebbe recuperato il controllo su se stesso.
«Cal? Tutto bene?»
«Con il problema che ho avuto cos’altro potrei fare, Ai?»
Avrebbe potuto fare il portavalori. O lavorare come istruttore di tiro – di volo no, gli avevano ritirato la licenza quando l’avevano congedato – insomma, in fondo il futuro avrebbe potuto essere più roseo di quanto stesse funestamente prevedendo.
«Ci sono più possibilità di quante pensi» affermò con voce che reputò sufficientemente decisa.
Ai sospirò. Aveva occhiaie scure che non le aveva mai visto, mal celate dall’espediente di aumentare la luminosità della sua cam. Forse era preoccupata per lui, forse aveva fatto male a non dirle nulla.
«Sii sincero con te stesso, Cal… tu sai solo fare il soldato.»
«Questo lo so da me.»
«E i mercenari non ti prenderebbero mai.»
«No di certo, ma non credo che vorrei comunque entrare in quell’ambiente,» obbiettò lui, «sono più organizzazioni criminali che altro. Io ho sempre combattuto il nemico. Non voglio andare in giro ad ammazzare le altre persone.»
Il dolore allo stomaco era cessato, grazie al nanobot che gli aveva parzialmente anestetizzato la zona offesa.
Sì, poteva farcela. La guerra contro i karankatul era logorante e molti facevano la sua fine, se non rimanevano direttamente uccisi in battaglia, perché quei mostri erano difficili da tirar giù e molto abili nel combattimento. Il presidente attualmente in carica li aveva definiti “gli spartani di alfa centauri”, benché non provenissero affatto da lì, e lui si era dovuto far spiegare il senso di quell’affermazione. Era una cosa antica, storia, roba che non ti danno da studiare se sei un YMG, c’è ben altro da imparare, ma il concetto era chiaro: un popolo interamente dedito all’arte della guerra. Chiaro, semplice. I karankatul erano proprio così.
Certo, loro non erano gli stupidi indigeni primitivi della luna-miniera su cui li avevano incontrati per la prima volta. L’umanità ne aveva fatti, di passi in avanti, e la tecnologia superiore del nemico non era comunque tale da dar loro un batosta definitiva. Era un tira e molla perpetuo, pianeta per pianeta, luna per luna: un giorno gli uomini conquistavano una regione rocciosa e inospitale, completamente inutile se non da un punto di vista visivo sulle carte dei territori blu e rossi, il giorno dopo i karankatul se la riprendevano. Ogni tanto le flotte spaziali si scontravano, distruggendo miliardi e miliardi di crediti di astronavi ed equipaggiamento e uccidendo qualche centinaio di giovani cadetti. Talvolta i marine riuscivano ad abbordare una nave avversaria – perché la realtà era che i deviatori del nemico erano davvero efficienti e l’unico modo per abbatterne qualcuna era dall’interno – e cominciava una schermaglia che poteva durare ore ed ore, in cui tutta la mostruosità e la brutalità dei karankatul si riversava sui giovani soldati. Se sopravvivevi, eri un fortunato. Se anche la tua mente rimaneva intatta, eri un miracolato. Per Cal era stato così, fino alla quattordicesima incursione.
«Fai qualcosa stasera?» cambiò argomento Ai, esibendosi in un sorriso stanco.
«No, io… penso che rimarrò a casa a navigare, per vedere se c’è qualche lavoro disponibile.»
«Per un paio d’ore potresti anche staccare. C’è quella nuova neuro-proiezione comica, come si chiama… “L’Alieno e la Bella”. Offro io, dai.»
«Non è una proiezione sui mostri?»
«Sì, lo dico io che è comico. È un film di quelli trash da quattro soldi, tutti effetti speciali di second’ordine e cliché allucinanti. Una cosa leggera.»
Cal esitò. Forse avrebbe dovuto accettare. Staccare un attimo. Anche per non perdere il rapporto con Ai. Stavano insieme da quattro anni e lui non la vedeva da un mese, da quando aveva avuto la crisi. Si erano sentiti qualche volta, mentre lui era ricoverato all’ospedale psichiatrico militare, ma quando era stato congedato tre giorni addietro aveva smesso di rispondere alle sue chiamate. Lei gli piaceva, era una ragazza carina, intelligente, ma lui si sentiva talmente una merda da desiderare solo di stare solo e isolarsi da tutto ciò che lo circondava.
Avrebbe potuto fare carriera. Sarebbe potuto diventare qualcuno. E invece era solo l’ennesimo ex marine tremante, impaurito dalla propria ombra, che finiva in mezzo a una strada senza risparmi, senza nessuna esperienza del mondo, senza amici.
Si sarebbe potuto crogiolare nel proprio dolore tra le braccia della bionda Ai, sfogarsi tra le lenzuola del minuscolo letto del college…
«Magari domani, eh? Stasera voglio fare ‘sto lavoro e togliermi il pensiero.»
Lei fece un sorriso tremulo.
«Allora ti chiamo domani?»
«Non preoccuparti, ti chiamo io.»
«Va bene, bene… allora… a domani. E fai aggiustare questa cam.»
«Certo, sì, a domani.»
«Ti voglio bene.»
«Anch’io, Ai. Buonanotte.»
«Buonanotte.»
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 2“]La sala in cui li avevano fatti riunire assomigliava molto a una classe di scuola, per certi versi. Quattro file di tavolini simili a banchi erano ordinatamente distribuite per tre quarti della stanza, mentre la zona rimasta libera era occupata da un ripiano di proiezione piuttosto grande e da una scrivania posizionata nell’angolo.
Killington era compostamente seduto su di una sedia a fianco di essa, in maniera da essere in faccia a chi sedeva nei banchi, la valigetta posata sulle ginocchia con le mani rigidamente stese sopra, la schiena dritta e il riflesso dei neon a soffitto nelle lenti degli occhiali. A fianco a lui, dritto come un fuso e col petto in fuori, vestito in giacca e cravatta ma dando l’impressione di essere comunque in anfibi e mimetica, il generale Williamson squadrava i detenuti seduti scompostamente di fronte a lui, simili ad allievi decisamente fuori corso annoiati dalla lezione.
Il generale era in pensione da quasi dieci anni e, al suo congedo, aveva immediatamente ricevuto un’offerta di lavoro dalla Triple W. Il suo compito era di istruire i soggetti destinati alle missioni ad alta pericolosità sui loro scopi, sull’attrezzatura loro fornita e sul suo funzionamento e, più importante di tutto, il suo compito era rimanere in collegamento diretto assieme a Killington con i detenuti durante lo svolgersi della missione. Ci sarebbe stato un militare d’esperienza, con loro, ma la supervisione dalla base era obbligatoria.
«Come di consueto,» interloquì il generale, «vi saranno affidati dei nomi in codice. Durante l’intero svolgimento della missione io e il signor Killington rimarremo in collegamento foto-laser con voi e, benché i canali di comunicazione della Triple W siano assolutamente sicuri, la precauzione di un nome in codice è preferibile.»
«Perché i canali sono criptati? La grande e magnifica Triple W fa cose illegali, forse?» lo interruppe sarcastico Red Two, un sudamericano tarchiato dal cranio perfettamente calvo e lucido, con due tatuaggi gemelli di croci celtiche sulle tempie.
Il generale non spostò nemmeno lo sguardo sull’uomo, continuando il suo discorso.
«Come è logico che sia, la Triple W ha interesse nel mantenere la propria privacy. Essendo la grande azienda che è, come voi tutti saprete certamente, è soggetta a un massiccio spionaggio industriale e la cautela viene prima di tutto. Non vorremmo mai che importanti e preziosi segreti su progetti e scoperte della Triple W trapelassero dalle nostre comunicazioni andando ad arricchire le aziende avversarie. È tutto chiaro, sin qui?»
I tre annuirono. Poi Red Two alzò la mano con un ghigno sardonico, come uno scolaretto.
«Sì, matricola 0013463?»
Red Two fece una smorfia.
«Noi li abbiamo già, dei nomi in codice.»
Il generale alzò le sopracciglia.
«Ma davvero?»
«Nel carcere di East New Talburgh usa attribuire ai prigionieri un nome basato sul colore della sezione e il numero di cella che li accoglie, generale,» intervenne Killington, «così tutti loro hanno un nome molto… cinematografico, si potrebbe dire.»
Il generale, che aveva in mano una lunga bacchetta, se la batté pensierosamente nel palmo della mano mentre fissava il soffitto. Con quei capelli a spazzola, per quanto bianchi e radi, quella mascella da duro e il volto perfettamente rasato sarebbe apparso come un militare in incognito anche vestito da clown.
«Molto bene, signori. Quali sarebbero questi nomi in codice?»
«Noi veniamo dalla sezione Rossa. Andiamo da Red Two – che sono io – a Red Seven.» terminò il sudamericano indicando un gigante dalla testa a lattina e gli occhi piccoli e cattivi.
«La nostra è la sezione Blu. Io sono Blue One e quello è Blue Fourteen, capo.»
«Grey Five.»
Il generale annuì brevemente.
«Molto bene. Mi paiono adeguati. Danno, tra l’altro, l’impressione della presenza di tre squadre in campo: un eventuale ascoltatore indesiderato penserebbe erroneamente che tre squadre di almeno quattordici elementi ciascuna siano in azione, mentre saranno solo tre per un totale di ventuno. Eccellente.»
Red Two alzò di nuovo la mano.
«Sì?» chiese il generale con tono irritato.
«In quale missione tritacarne ci state inviando, generale?»
Calcò il tono sulla parola “generale”, diventando quasi condiscendente.
Williamson ignorò la punzecchiatura.
«Sarete inviati su Arcturus IV, nel sistema Beta 82. È una luna di Saturno II dove abbiamo impiantato, anni fa, una base scientifica per lo studio delle forme di vita che la popolano.»
Grey Five sgranò gli occhi.
«Forme di vita?»
Il generale annuì.
«Si tratta del quarto luogo in tutto l’Universo – eccettuata la Terra, naturalmente – in cui siano state ritrovate forme di vita. Piuttosto sviluppate, inoltre, anche se non paragonabili all’avanzata società dei karankatul e ai mitici aleani, della cui esistenza non si è però mai avuta conferma. Una fauna vasta e interessante. Arcturus IV ha un’atmosfera respirabile, ricca di ossigeno e azoto, ma la presenza di molti altri gas liberi suggerisce la precauzione di un impianto di respirazione o, perlomeno, di escursioni brevissime all’esterno. È superfluo dire che queste ultime sono quasi nulle. Come dicevo, è presente una base scientifica molto grande sulla luna in questione, costata diverse migliaia di miliardi di crediti, e al suo interno sono presenti anche alcuni laboratori di ricerca della Triple W, segretissimi. Per terminare, esiste un giacimento minerario di silicio immenso che, logicamente, è attualmente sottoposto a intenso sfruttamento, dato che sulla Terra oramai abbiamo esaurito gli agglomerati minerari più consistenti. Dato che questo giacimento si trova in una zona climaticamente ostile della luna – che ha la peculiarità di raggruppare per zone conglomerati gassosi di varia natura – il complesso d’estrazione è blindato e attrezzatissimo. In parole povere, altre migliaia di miliardi. E qui sorge il problema.»
Gli spettatori erano ora attentissimi. Avrebbero scoperto cosa li attendeva su Arcturus IV.
«Esattamente sei mesi fa, dopo alcuni rapidi messaggi sconnessi e allarmisti, l’impianto di estrazione è scomparso. Non nel senso fisico, naturalmente, ma le centinaia di operai specializzati, dirigenti, geologi e così via che vi erano impiegati sono spariti di colpo. Nessun messaggio è più pervenuto dal sito minerario, né è stato possibile contattarlo in alcun modo. Gli inviati dall’area scientifica dicono che è completamente blindato, tutte le porte e le feritoie sono sigillate, i pannelli di controllo per l’accesso sono senza energia. Per entrare servirebbero una bomba o un laser molto potente e ore di lavoro.»
Il generale fece una pausa per riprendere fiato e riordinare le idee.
«Siccome non sono presenti militari nell’area scientifica – erano tutti nel sito minerario e, comunque, la loro presenza era semplice precauzione ed erano poche unità – non ce la siamo sentiti di chiedere a qualcuno di quei preziosissimi cervelloni di rischiare. Abbiamo mandato un’unità d’élite dei marine che si trovava su Gea II, una stazione orbitante situata in un sistema vicino, e abbiamo chiesto loro di forzare l’ingresso del sito minerario e di scoprire cosa fosse successo. Tre mesi fa sono arrivati su Arcturus IV. Questo è uno degli ultimi messaggi che abbiamo ricevuto dal tenente Simmons. Porta la data del giorno in cui sono sbarcati sulla luna.»
Il ripiano di proiezione si illuminò e una finestra visiva alta due metri e larga tre si accese davanti a loro; apparve in primo piano il volto squadrato e anonimo del tenente Simmons, un uomo di mezz’età dagli occhi ravvicinati e il naso camuso.
«Comunicazione tre del giorno quattro Aprile tremilaquattrocentodue. Parla il tenente Simmons della squadra Gamma Otto. Siamo giunti oggi su Arcturus IV e abbiamo lasciato la nave attraccata alla Aefestus, la stazione in orbita attorno al pianeta. Io e dieci dei miei uomini siamo scesi a terra e siamo atterrati alla base di ricerca scientifica. Siamo stati accolti dal Dottor Miller alle ore sette e quarantacinque locali e abbiamo eseguito un’ispezione di prassi nella struttura e negli immediati dintorni. Abbiamo tentato di metterci in contatto con il sito minerario ma, come ci era stato detto, non abbiamo ricevuto alcuna risposta. La situazione globale sembra normale: non abbiamo riscontrato anomalie nella struttura né segni che risaltassero in alcun modo nel territorio circostante, tranne che per la presenza della fauna indigena che, peraltro, tende a tenersi a distanza dagli uomini. La scansione biologica della struttura non ci ha detto nulla di utile e lo stesso dicasi per quella termica, ma non è sorprendente, in quanto il grosso della struttura si sviluppa centinaia di metri sottoterra. C’è un certo nervosismo nello staff, ma è comprensibilmente legato al fatto che negli ultimi tre mesi i colleghi con cui avevano lavorato sino a quel momento siano rimasti chiusi all’interno del sito minerario.»
Il faccione del tenente si scostò e apparve loro l’immagine di una grande parete metallica costellata da feritoie chiuse, simili a gigantesche branchie metalliche, con un’unica porta così piccola rispetto al resto da sembrare quasi ridicola.
«Questo,» riprese il tenente «è uno degli accessi per i tunnel di manutenzione. Una sorta di entrata di servizio utile ai tecnici per muoversi agevolmente nella struttura senza dover transitare attraverso le aree di lavoro. Come potete vedere, il soldato Queen sta forzando la porta con un elettro-scassinatore che abbiamo portato appositamente allo scopo. A momenti dovremmo poter entrare.»
Strizzarono tutti gli occhi e videro una figura inginocchiata davanti alla porta che armeggiava con qualcosa. La visuale prese ad avvicinarsi andando su e giù al passo del tenente e, di colpo, la porta si spalancò e una nube se ne riversò fuori, investendoli e oscurando la visuale. Si udirono parecchie urla e colpi di tosse e il respiro affannoso del tenente che si muoveva alla cieca sino a uscire dalla nube. Passarono forse trenta secondi prima che la visuale tornasse abbastanza chiara da distinguere qualcosa e videro che i soldati erano tutti piegati o inginocchiati a tossire, ma parevano illesi. Il tenente si avvicinò alla porta e la visuale si abbassò sul soldato che l’aveva aperta, riverso sulla schiena e cianotico. Non pareva respirare.
La trasmissione si interruppe di colpo.
Il generale Williamson non aveva mutato espressione durante l’intera proiezione.
«Be’, e poi?» chiese Red Two.
Per la prima volta aveva abbandonato il suo tono da bullo e pareva quasi spaventato. L’idea di essere spedito su un pianeta dove una squadra di marine non era servita ad alcunché non gli sorrideva affatto.
«Il soldato Helmer Queen è stato ricoverato d’urgenza presso il centro medico della struttura scientifica. In fin di vita, ma non morto. Il tenente ci ha mandato altri due messaggi prima che le comunicazioni con Arcturus IV cessassero completamente. Nel primo si limita a informarci dello stato di salute di Queen e poi ci descrive brevemente l’incidente. A quanto pare, le polveri e i gas contenuti all’interno del sito minerario, che normalmente sarebbero stati smaltiti dal sistema d’aerazione attraverso quelle feritoie chiuse che avete visto durante il video, hanno continuato ad accumularsi e, non appena trovato uno sfogo, si sono riversati al di fuori della struttura attraverso la porta. Dai primi esami non è stata rilevata alcuna tossicità, tranne una quantità piuttosto elevata di azoto e anidride carbonica, ma il soldato Queen è stato investito in pieno da qualcosa come una tonnellata di gas ed è rimasto completamente privo d’aria per quasi un minuto, rendendo la maschera antigas che indossava del tutto inutile. Ma il problema non è questo. Ora vi faccio vedere l’ultimo messaggio.»
La finestra video si accese nuovamente e il faccione del tenente apparve in primo piano. Questa volta, però, era diverso. Una barba vecchia di una settimana colorava di scuro la mascella squadrata e ombre bluastre incorniciavano gli occhi. Una macchia irregolare di quello che pareva sangue aveva schizzato un lato del volto e lo cingeva come una mano mostruosa.
«Comunicazione uno del giorno undici Aprile tremilaquattrocentodue. Parla il tenente Simmons della squadra Gamma Otto. I miei uomini sono morti o dispersi. Su dieci, solo il comatoso Queen non si è mosso dal suo posto. Il sito scientifico sembra una città mediorientale durante un bombardamento. C’è gente che scappa da tutte le parti, il panico è tangibile; la struttura, con la sua intelligenza artificiale, sembra incapace di comprendere cosa stia accadendo e mette aree in quarantena e toglie l’energia a interi settori senza alcun criterio apparente. La testa di uno dei miei ragazzi mi è esplosa a meno di un metro di distanza, colpita da una di quelle… quelle cose che sono apparse in tutta la struttura.»
Il tenente si interruppe, ansimando pesantemente e guardandosi attorno maniacalmente. A un rumore improvviso sobbalzò e la visuale scattò da un lato, ma non pareva esserci nulla nella stanza. Il volto del tenente riapparve davanti a loro.
«Il giorno che abbiamo aperto il sito minerario qualcosa ne è uscito. O forse erano in agguato, in attesa di qualcosa. Non lo so, cazzo, non lo so! Però ora sono qui! Sono esseri intelligenti, questo non si può ignorare, e sono provvisti di un qualche tipo di arma. Hanno fatto fuori almeno una dozzina di persone, per quel che ne so io, e si aggirano per il sito e la base ammazzando tutti quelli che trovano. Non so cosa vogliano, non so perché lo facciano, ma c’è gente asserragliata dappertutto come me, chiusa in stanze con la porta sprangata in attesa di aiuto. Ma siamo noi l’aiuto, cristo! Sono cinque giorni che mi nascondo in giro per la struttura tentando di capirci qualcosa. Ho mandato un messaggio alla Aefestus e a ore dovrebbe arrivare un gruppo in tenuta d’assalto. Cercheremo di salvare chi possiamo e di far fuori più… alieni che riusciamo, poi torneremo di corsa sulla nave e ci organizzeremo come si deve.»
Un’esplosione smorzata risuonò di sottofondo e il tenente alzò lo sguardo per un momento.
«Sono riuscito ad ammazzarne uno, di quei bastardi. Non ho mai visto niente di simile. Non sono robot e non sono karankatul, ma sono comunque esseri viventi di qualche tipo. Sembrano… insetti, ecco, con il corpo tutto coperto di protuberanze e sembra quasi che abbiano una corazza addosso, come uno stampo malversato pieno di pieghe e angoli. Gli ho sparato in quel torace schifoso e si è aperto come un’anguria schizzando roba nera da tutte le parti, una cosa da rimettere pranzo e cena assieme. Ucciderlo è stato facile, ma il problema è che non sembrano organizzati, almeno non secondo la nostra logica. Vanno in giro da soli, si incontrano solo uno a uno e attaccano tutto ciò che si muove. Ne ho persino visto uno ammazzare un suo simile, probabilmente un errore dovuto alla tensione. Non si capisce bene quanti ce ne siano. A ogni modo, aspetterò l’arrivo dei marine e, non appena sulla nave, invierò un nuovo rapporto. Chiudo.»
La trasmissione s’interruppe.
Il generale scosse lentamente la testa.
«Inutile dire che non abbiamo più avuto notizie. Anche la Aefestus è come morta, non riusciamo ad avere un contatto con loro. Il che ci spinge a pensare a un attacco in grande stile sia sulla terraferma che in orbita. Il fatto è che non capiamo il perché, non sappiamo chi. Brancoliamo nel buio, insomma.»
Red Seven alzò lentamente il testone a lattina, con occhi piccoli e incastonati a fondo nel cranio, e parlò per la prima volta.
«Quando l’umanità è entrata per la prima volta in contatto con i karankatul non è stata una bella esperienza. E non ci hanno certo fatto la cortesia di avvisarci, prima di attaccarci.»
«Questo è vero, ma il problema è che i karankatul esistono. Hanno astronavi che appaiono sui nostri schermi, trasmissioni radio che possono essere intercettate. Abbiamo avuto tonnellate di informazioni orali, scritte e video della loro presenza già nei primi giorni dopo al contatto. Qua è diverso. Nessuna astronave è stata individuata, nessuna trasmissione intercettata. Non abbiamo nemmeno un’immagine di questi alieni. Sono apparsi da un momento all’altro e hanno cominciato a farci fuori. Eppure il pianeta è stato studiato per anni, non esistono né città né segni tangibili di alcun tipo di civiltà. Solo animali. E nessuno di loro è in grado di ammazzare un uomo, sono tutti piccoli, per la maggior parte erbivori. Quindi arrivano dall’esterno, ma se così fosse possiedono il miglior sistema di schermatura mai concepito da specie intelligente, perché nessuno si è accorto di qualcosa.»
«Quindi voi ci state mandando a fare cosa?» esclamò Grey Five, «A bonificare un’area dove neanche i marine ce l’hanno fatta?»
«Niente di tutto ciò,» ribatté seccamente Williamson, «non correte con la fantasia. Il vostro compito non sarà bonificare, bensì documentare. Non scenderete mai su Arcturus IV, vi limiterete ad attraccare alla Aefestus e lì, capitanati dal nostro ufficiale scelto, esplorerete la nave e ci comunicherete tutto ciò che noterete di anomalo. Tenterete anche di mettervi in contatto con la struttura scientifica sul pianeta, per vedere se ci sia qualche superstite, e se le circostanze saranno favorevoli al recupero di qualcuno allora procederete.»
«Almeno saremo armati come si deve?» chiese Blue One.
«Sarete equipaggiati con la tuta corazzata standard, quella normalmente riservata ai marine. Non solo è dotata di una maschera antigas a filtro multiplo, ma anche di una riserva di ossigeno per sei ore, di scarpe magnetiche, visore notturno e a infrarossi, di radio in contatto sia con noi che con ogni elemento del gruppo e un grimaldello elettronico portatile.
Le tute sono state studiate per gli abbordaggi alle navi karankatul, quindi hanno un jet pack con carburante sufficiente per un numero limitato di manovre, nel caso rimaneste per qualche ragione nel vuoto o in assenza di gravità; possono mantenervi a una temperatura che permetta la vita anche allo zero assoluto per un tempo ben superiore a quello della durata della bombola d’ossigeno liquido e, cosa più importante, sono molto resistenti.
Non possono affrontare l’impatto di un proiettile infrasonico né resistere se decideste di tuffarvi nella scia di un reattore al plasma, ma vi eviteranno danni da munizioni standard, da attacchi corpo a corpo di quasi qualsiasi tipo e assorbiranno la maggior parte dell’impatto se doveste cozzare contro qualcosa o cadere da grandi altezze.»
Ci furono alcuni commenti entusiastici nella sala, inframezzati da bestemmie.
«Armi niente?» chiese una voce.
«La tuta è la vostra arma. Braccia e gambe sono dotate di estensioni pneumatiche collegate direttamente al vostro sistema nervoso. Quando voi camminerete, solleverete un oggetto o colpirete qualcosa le estensioni reagiranno in perfetta sincronia con i vostri arti, esercitando una forza di molto superiore alla vostra. Questo vi permetterà di correre più rapidamente, saltare più in alto, sollevare e trasportare pesi di molto superiori alle vostre normali possibilità e, in caso di scontro, di colpire con la forza di un’auto in corsa il vostro bersaglio.»
«Che figata.»
«Tutti dovrebbero averne una.»
«Tranne la polizia!»
«Già!»
Ci furono alcune risate.
«Niente armi da fuoco?»
«Le armi da fuoco non vi servono e voi non godete del privilegio dell’altrui fiducia. L’unico a esserne dotato sarà il vostro ufficiale scelto e saranno tutte tarate sulla sua impronta genetica, quindi vi avverto sin da ora: non tentate di sottrargliele. Nelle vostre mani saranno completamente inutili, è chiaro? Non mandate tutto a puttane per una stronzata, mi sono spiegato? Ci sono domande?»
Nessuno parlò.
In quel momento Killington si portò una mano all’orecchio, dove un microscopico circuito telefonico era alloggiato nella curva del lobo.
«Generale. Ho una notizia dal centro comando.»
Williamson lo raggiunse e parlottò con lui per qualche momento, corrucciandosi. I detenuti allungarono il collo, tentando di scoprire cosa stesse accadendo, ma i due terminarono immediatamente il loro breve colloquio.
«Molto bene. Sarete subito accompagnati alle vostre camerate. Si parte domattina. Saranno necessari circa quattro mesi per raggiungere la Aefestus, che si trova a otto sistemi di distanza. Salutate la Terra, starete lontani per un po’.»

 

Umani

 

Cal trascorse la serata a mandare curriculum un po’ dovunque, dai siti di botanica sotterranea a quelli militari, dai rivenditori di automi serventi alle ditte di consegna rapida. Una volta giunta la mezzanotte, con gli occhi arrossati e un forte dolore al collo, decise di spegnere il terminale e si stiracchiò, poggiandosi di peso allo schienale della sedia modellante. Questa, avvertendo un certo livello di pressione, si adeguò a una posizione maggiormente inclinata, cosicché lui potesse rimanere comodamente poggiato all’indietro senza, tuttavia, sdraiarsi completamente.
Cogitò sulla possibilità di prendere qualcosa per il collo, ma la scartò subito. Da quando aveva avuto la crisi, era stato continuamente imbottito di farmaci sino al congedo. Doveva disintossicarsi. Quella roba lo rendeva debole, sia di corpo che di mente. Doveva muoversi. Camminare.
Si alzò di scatto in piedi, facendo scricchiolare ginocchia e caviglie, digitò sulla tastiera virtuale a muro il codice doccia e subito il terminale venne inglobato dalla parete, la sedia dal pavimento e l’arredamento olografico, rappresentante una libreria, alcune piante in vaso e quadri in stile orientale, venne sostituito. Piastrelle azzurre orlate di bianco, cascatelle perpetue terminanti in laghetti che costeggiavano lo zoccolo del muro e un mosaico rappresentante delfini guizzanti sul pavimento lo circondarono. Cal non ne aveva mai visto uno dal vivo, dato che si erano estinti quasi duecento anni prima a causa della cucina giapponese. Una doccia emerse dal pavimento, un portasciugamani con tanto di accappatoio dalla parete a fianco a essa e, dall’altro lato, i servizi igienici.
Aprì l’acqua, impostata su trentacinque gradi, e si infilò sotto il getto, beandosi del tepore e dei muscoli che si scioglievano.
Il suo appartamento, come la maggior parte di quelli di livello medio, era grande in totale dodici metri quadri, ma conteneva ben cinquantasette varianti ambientali tra sale da pranzo e da letto, salotti, bagni con vasca, doccia o jacuzzi, sale da gioco e così via. Tutti i suoi averi erano sapientemente stipati nelle pareti e nel pavimento dall’intelligenza artificiale dell’appartamento, che li tirava fuori su richiesta o se veniva selezionata una determinata ambientazione.
Fintanto che era stato nei marine vi era rimasto solo nei brevi periodi di licenza, usando sempre le stesse tre o quattro varianti, ma da quando era stato congedato le aveva scorse tutte, preso dalla noia. Ce n’era una allucinante: un salotto con caminetto e fiamme danzanti – tutte proiezioni, naturalmente – e teste di animali estinti appese alla pareti, pelliccia d’orso bianco per terra, fucili antiquati di vario calibro in esposizione su mensole e mobiletti di legno lucido e scuro e un enorme coccodrillo imbalsamato da una parte. Selezionando quell’ambientazione, la IA estraeva una bottiglia di vino rosso con due bicchieri e metteva il tutto su un tavolino incastrato tra due poltrone di pelle zebrata. Il suo nome era “intrepido cacciatore” e, nella spiegazione, era specificato che il suo scopo fosse eccitare le ragazze.
«Musica!»
Una coppia di casse spuntò agli angoli del soffitto e partì uno dei brani che aveva salvato nel suo database. Andava matto per la musica folk del ventunesimo secolo, con quelle antiquate chitarre elettriche, la batteria non elettronica e le voci cavernose. Roba di un’altra epoca. Quello era un pezzo dei Soman, dal titolo “Doomsday”.
La voce sensuale della IA si fece sentire, abbassando momentaneamente il livello della musica.
«Cal, hai due messaggi non ascoltati in segreteria.»
«Data?»
«Il primo è del quattordici Aprile. Il secondo di oggi, sedici Aprile.»
«Play» sospirò lui.
«Messaggio uno. Mittente: Communication s.m.o.
Gentile utente, Communication vi invita ad unirvi al suo programma…»
«Stop e cancella» ringhiò lui.
«Cancellato. Messaggio due. Mittente: Amy Zhou.
Ciao fratellone! Come sta la tua crisi epilettica? No, dai, scherzo. Senti, mamma e papà domani torneranno dalla crociera attorno al Sistema Solare. Pensa, sono già passati tre mesi. Volevo solo dirti che pensavo di andarli a prendere allo spazioporto, arrivano domani alle tredici. Sarebbe carino se venissi anche tu.»
Cal si frizionò con forza i capelli con il gel multifunzione – “profumo, corpo e pulizia” canticchiò tra sé e sé ricordando lo slogan riprodotto dagli scaffali che lo esponevano, “nessuna ragazza ti resisterà! Nessun ragazzo no ti dirà!” – mentre l’indicatore dell’acqua per usi non digestivi calava repentinamente.
Tutti gli appartamenti erano dotati di una serie di sistemi per la raccolta dell’acqua – fosse essa piovana o la semplice umidità dell’aria – e tra di essi uno dei più efficienti era di certo il riciclo delle acque bianche e nere, che venivano sapientemente depurate e reimmesse in circolo attraverso lavandini e sanitari. Quando lo aveva scoperto, Cal per un po’ aveva provato senso a lavarsi con il riciclo del proprio piscio, ma poi si era abituato. Da dove veniva lui, nella zona periferica, quello non era ancora un metodo molto in voga.
Uscì dalla doccia, si asciugò, si vestì senza prestare attenzione a cosa stesse indossando e uscì di casa. La porta a scorrimento scese silenziosa alle sue spalle, priva di qualsivoglia fessura o serratura, e i neon del corridoio si attivarono grazie ai sensori di movimento. C’erano molte lamentele per il fatto che se qualche distratto lasciava il gatto libero di girare a suo piacimento le luci rimanevano accese oltremisura, con conseguente aumento della bolletta condominiale della corrente.
Cal raggiunse il portello esterno del palazzo e premette il pulsante per chiamare l’ascensore, che in pochi secondi sfrecciò lungo il binario magnetico e lo raggiunse, aprendo con un sibilo la porta trasparente. Grazie a quell’espediente, i costruttori avevano risparmiato moltissimo spazio nell’edificio che, anziché essere destinato a trombe di scale o ascensori, era divenuto anch’esso abitabile.
«Buongiorno, signor Zhou,» chiosò la cabina trasparente, «a che piano desidera recarsi?»
«Livello strada, grazie. Pareti trasparenti.»
«Sì, signor Zhou.»
L’ologramma sulle pareti della cabina, raffigurante l’interno di un antiquato taxi, si disattivò. Nuova Hong Kong apparve in tutto il suo metropolitano splendore davanti ai suoi occhi, mentre l’ascensore precipitava verso il basso a una velocità appena inferiore a quella necessaria perché il suo passeggero si staccasse dal pavimento. Rallentò moderatamente gli ultimi cento metri e si fermò con uno scampanellio al piano desiderato.
«Buona serata, signor Zhou.»
La città era un brulichio di luci, odori e rumori che non giungevano negli appartamenti ben isolati del complesso in cui viveva, il Golden Silence, che ospitava la bellezza di centotremila moduli abitativi distribuiti su oltre quattrocento piani. Le pubblicità tridimensionali, nonostante fossero in uso da molti anni, lo facevano ancora scartare di un passo per allontanarsene, per evitare mani e volti e seni impalpabili che si tendevano apparentemente verso di lui. Le insegne di locali e negozi facevano a gara sulla luminosità e mobilità e varietà dei colori, annichilendo di fatto l’illuminazione stradale, e nella più buia delle notti erano necessari gli occhiali da sole.
Cal evitò un cinorettile da passeggio, che saggiò l’aria con la lingua verso di lui e scodinzolò, scavalcò senza pensare un tombino coperto da una griglia dall’aspetto poco solido e si infilò in un vicolo familiare, dove lo starnazzio di spot, clacson e chiacchiere aerofoniche venne attutito dalle pareti ravvicinate dei due edifici in plastocemento.
Un gruppetto di sads, i capelli bianchi alla moicana e i vestiti color seppia aderenti, parlottava con tono lamentoso da una parte. Mentre li oltrepassava uno di loro lo guardò per un istante, il tatuaggio di due lacrime sotto a un occhio dilatato, da tossico. La pubblicità dei nuovi innesti facciali si attivò al suo passaggio, accecandolo momentaneamente, imprimendogli nella retina zigomi triangolari e occhi enormi, da manga, di un colore impossibile. Uno schema in movimento sottolineò alcune parti del volto e le ciglia si allungarono di colpo, le labbra divennero sottili, le orecchie appuntite. Era la nuova moda, “stile marziano”, anche se nessuno abitava effettivamente il pianeta rosso. Nessun indigeno, perlomeno.
Cal si frugò in tasca alla ricerca degli occhiali da sole, in modo da ripararsi da nuovi spot luminosi, ma si accorse di averli scordati nell’appartamento.
«Al diavolo.» si limitò a commentare.
Il motore esterno di un impianto di condizionamento si mise di colpo in funzione, facendolo sobbalzare. Si accorse di star nuovamente stringendo i denti e si forzò a rilasciare i muscoli della mascella. Si avvide solo in quell’istante che gli dolevano.
Infilò una scaletta che scendeva sotto il livello della strada, sovrastata da un’insegna al neon molto vintage, di quelle con due animazioni che, accendendosi e spegnendosi in sequenza, davano una vaga illusione di movimento.
Il locale era fumoso, malsano, con un forte odore di fritto, alcol, sudore e ormoni. La luce già fioca era ancor più attenuata dalla spessa cappa causata da sigarette e bong, illegali da oramai due secoli. Forme dalle curve conturbanti si muovevano in quella nebbia, leggermente rialzate rispetto al pubblico; un seno, una gamba, un sedere, capelli lunghi, tacchi alti. Il calore era quasi insopportabile e cominciò subito a sentirsi unto, sporco, ma tentò di ignorare quelle sensazioni.
Fece un cenno col capo all’enorme nero seduto su di un minuscolo sgabello accanto alla porta, che lo riconobbe e rispose al suo saluto, scese ancora un paio di gradini coperti di tappeto rosso e si avventurò tra sedie, tavolini e poltroncine, prendendo posto in un divanetto di pelle consunta ad appena un metro dal palco. Una caviglia abbronzata – almeno così pareva nella luce del locale – si impose al suo sguardo, circondata da una catenina percorsa da scariche di luce violetta. Tacchi alti, neri e lucidi, sostenevano un piede affusolato privo di unghie, con tatuato sul dorso un fiore dai petali geometrici di cui non conosceva il nome.
Cal alzò lo sguardo, percorrendo gambe infinite e natiche lucide, l’inguine a malapena coperto, ombelico, ventre piatto, seni scoperti dai capezzoli di metallo scintillante, collo lungo con innesti sensoriali simili al segno lasciato da un sensuale rossetto. Il volto era sottile, dalla bocca enorme, con labbra che rifrangevano la luce, occhi a mandorla che parevano d’argento, naso e orecchie praticamente inesistenti, fronte alta e regale incorniciata da plastocapelli simili a grappoli di bacche dorate, lunghi appena sino alla linea della mascella.
«Tesoro, vuoi un ballo privato?»
Fino a un paio di anni prima andava molto lo “stile rettile”, ma oramai il marziano lo aveva surclassato. Quella spogliarellista era obsoleta, ma ciò non significava che non vi fosse chi apprezzava.
«Magari dopo, grazie.»
Lei gli strizzò l’occhio, si passò un mano su di un seno quasi distrattamente e tornò al palo, muovendo i muscoli della schiena a ogni passo. Anche la spina dorsale era coperta di innesti sensoriali, che esteticamente apparivano come una tratteggiatura nera lunga dalla cervicale al bacino.
Cal si morse un labbro. Obsoleta o no, con tutti quegli innesti era probabile che la spogliarellista riservasse scopate private da far esplodere il cranio peggio del ghiaccio nero.
«Bevi qualcosa, amico?»
Cal si voltò verso la cameriera, una sads munita di una capigliatura bianca a caschetto che le copriva quasi interamente il volto. Dietro ai ciuffi si potevano intravedere occhi enormi, nerofumo, e labbra così incrostate dai piercing da scintillare all’andirivieni della luce. Due meca-cilici stringevano entrambe le braccia della ragazza, stillando lentamente sangue scuro che scivolava lungo i vestiti aderenti, mimetizzandosi con la trama vermiglia che percorreva la giacca e i pantaloni color seppia.
«Un dead diana, senza ghiaccio, polvere rossa.»
«Bene, amico.»
La cameriera si allontanò. Lui li odiava, i sads. Ogni dieci anni circa usciva una di quelle mode i cui aderenti facevano di tutto per dimostrare di essere tristi, di desiderare dolore e morte, di essere dei disadattati della società, gli unici a provare sentimenti con tale forza da esserne sopraffatti. Erano solo vermi senza spina dorsale che tentavano di mettersi in mostra in maniera distorta, che anziché essere veramente originali si conformavano a loro volta a quel gruppo, in cui erano tutti identici.
Pochi istanti dopo la ragazza gli tese un bicchiere colmo di liquido trasparente, denso come crema al whiskey, cui aggiunse davanti ai suoi occhi un pizzico di polvere rossa.
«Ti va un lavoretto di bocca mentre bevi, amico?»
Lui la guardò, interdetto. Una fantasia splatter gli attraversò fugace la mente, mentre fissava i piercing.
«Credevo che voi sads non amaste il contatto con la gente.»
«Il mio corpo è solo la tomba della mia anima. Io ci sputo sopra, ne faccio ciò che voglio.»
Parlava meccanicamente, come stesse recitando una parte studiata a memoria.
«No, grazie.»
«Come ti pare, amico.»
Cal le fece un cenno e mescolò il drink a lungo, osservando un’asiatica dai capelli rossi e la pelle d’avorio, gli occhi a mandorla che rifulgevano d’azzurro, mentre roteava sensualmente attorno ad un palo a led, che se veniva fissato con troppa intensità poteva causare crisi epilettiche.
Oramai l’impronta somatica degli orientali aveva in gran parte soppiantato quella occidentale, a pari merito con quella africana, ed era raro vedere persone con tratti europei in giro. In virtù di ciò, i cosiddetti “bianchi”, a prescindere che fossero di matrice irlandese, italiana, sassone, latina o tedesca erano considerati automaticamente belli e desiderabili, per la regola del “meno ce n’è, più vale”.
Si toccò i capelli, neri e lucidi, tipici dell’eredità giapponese che aveva nel sangue. Sua madre, in realtà, era russa, ma si notava più in sua sorella. La maggior parte di quelli che conosceva – e che poteva osservare attorno a sé – preferivano cambiare le proprie caratteristiche verso i vent’anni: nuovi capelli, spesso chiari, nuovi impianti oculari, spesso nuovi tratti somatici. Andava di moda rifarsi non solo zigomi e seno, ma anche le arcate sopraccigliari e togliersi le unghie, dando l’effetto “bambola di porcellana” promosso dall’ideatore della nuova chirurgia all’avanguardia, Ben Wu.
«Lei è il signor Zhou?» chiese con voce incolore la cameriera.
Di nuovo lei, ancora tra le palle.
«Che cazzo c’è?» chiese con malo modo.
La ragazza non fece una piega.
«Qualcuno la cerca al videofono.»
Cal alzò le sopracciglia. Chi sapeva di poterlo rintracciare lì? Sua sorella? No. I suoi genitori? Figuriamoci. Ai? Ma stiamo scherzando? Qualche amico dei marine, forse, ma non ricordava di aver mai parlato con qualcuno di quel locale. Praticamente il novanta percento delle attività che vi si svolgevano erano illegali e continuavano a essere portate avanti solo grazie alla quantità d’unto che il fumo, la droga e il sesso spalmavano sulle mani giuste.
Si alzò di malavoglia, ora pentito di aver declinato l’invito della spogliarellista rettile, e seguì la cameriera con la testa incassata tra le spalle, leggermente discosto rispetto alla sua scia per non calpestare le goccioline di sangue che perdeva. Certi ci andavano matti, per quella moda; la chiamavano dropping. Incredibile quanta gente uscisse di testa alla vista di un po’ di sangue.
Entrò in una cabina grande appena a sufficienza per rimanervi in piedi, dove un ologramma a bassa definizione era sospeso un po’ troppo in basso rispetto al suo volto. Un uomo lo osservava con un sorriso plasticoso da qualche ufficio, con un nuovo modello di occhiali multifunzione appollaiati sul naso.
«Il signor Zhou, presumo.»
«Lei presume bene, ma non penso di sapere con chi sto parlando.»
«Mi scusi se la disturbo mentre… si diverte, signor Zhou, ma ho per lei una proposta che potrebbe trovare interessante. Il mio nome è Killington.»
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 3“]W illiamson non era affatto felice.
Per quanto concordasse con Killington sulla scelta fatta, renderne conto al consiglio d’amministrazione era suo compito e avere a che fare con quegli individui gli dava sempre i brividi. Lui, generale pluridecorato, sessant’anni a combattere contro i karankatul alla ricerca del loro pianeta base, che tremava di fronte a grigi occhi-scanner, capelli impomatati e cravatte nere.
«Questo Zhou sembra avere avuto un gran bel crollo durante l’assalto a una nave nemica. Ventitré anni. Senza spina dorsale. Ai miei tempi…»
«Generale, sa perfettamente che negli ultimi trent’anni il numero di crolli psicologici in battaglia è salito in maniera esponenziale.»
«Quando combattevo io i karankatul, la maggior parte dei marine se la faceva addosso dalla paura. Ma eravamo veri uomini, che diamine, non queste checche truccate piene di innesti. Si friggono il cervello solo a vederlo, il nemico.»
Killington sospirò.
«Il sottotenente Zhou si è comportato bene, nella sua breve carriera. Tredici abbordaggi. Niente male davvero: sempre sopravvissuto, niente mutilazioni. Nell’ultimo è successo qualcosa ed è crollato. Non sappiamo cosa. O finge molto bene di non ricordare o la sua mente ha veramente cancellato il fatto.»
Williamson si morse il labbro.
«Comincio a credere che i karankatul abbiano sviluppato una specie di nuova arma. Qualcosa che ti colpisce qui,» disse battendosi un indice sulla tempia, «che rende inutili anni di addestramento ed esperienza, le più ferree convinzioni.»
«Sarebbe un gran bel guaio.»
«Sono centodue anni che siamo in guerra coi karankatul. Il più lungo conflitto bellico ininterrotto nella storia dell’umanità. Tutto il pianeta, anche le nazioni nemiche tra di loro, alleato contro la minaccia aliena. Lo sa perché siamo ancora qui?»
«Perché… siamo difficili da sconfiggere?»
Williamson fece una risata amara.
«Stronzate. La media di astronavi nemiche abbattute in uno scontro nel vuoto è di una contro dodici nostre. Quando affrontiamo i karankatul su qualche pianeta, ne ammazziamo uno ogni cinque soldati che perdiamo. Non ci siamo estinti solo grazie alla tecnologia cyborg e al nostro elevato numero. No, Killington, la verità è che se gli alieni sapessero dov’è la Terra, probabilmente ci saremmo già estinti.»
«Mi stupisce che in tutto questo tempo non l’abbiano ancora scoperto.»
«Milioni di sistemi solari. Centinaia di milioni di pianeti. Non è una ricerca facile. Nemmeno noi sappiamo dove sia la base, il pianeta natale dei karankatul. Non che cambierebbe qualcosa. Non riusciremmo neanche ad avvicinarci, ne sono certo.»
«Pensa che ci siano loro dietro questa faccenda di Arcturus?»
«Chi altri? Forse fa parte di quella nuova arma che credo abbiano messo a punto. Qualcosa che ti spappola il cervello.»
«E se fossero gli aleani?»
Williamson fece una smorfia, come se l’avessero colpito in pieno volto.
«Ci si mette anche lei con queste stronzate, Killington? Gli aleani non esistono, non si sono mai visti, non c’è alcuna prova tangibile che siano mai esistiti. Preoccupiamoci dei karankatul, che sono decisamente concreti, al contrario.»
Killington scosse le spalle.
«Era solo per dire.»
«Ancora non ci credo che mandiamo ventuno condannati a morte in missione sulla Aefestus capitanati da un ragazzino stressato.»
«Non abbiamo molta scelta. Entrambi i nostri uomini disponibili sono… indisponibili.»
«Degenerazione corticale. Cazzo, pensavo fosse solo un mito, non una malattia vera.»
«Abbastanza rara, come patologia. Si manifesta esclusivamente in individui che abbiano subito massicce modifiche fisiche. Al giorno d’oggi, va piuttosto di moda.»
«Un soldato che si fa gonfiare e colorare come una puttana, ecco cos’è. Bel momento ha scelto, per ammalarsi. Proprio quando O’Hara si fa ammazzare.»
«Una coltellata al collo.»
«In un vicolo. Con i pantaloni abbassati. Migliaia di crediti e anni di lavoro per trasformarlo in un marine e poi si fa far fuori da qualche pompinara, ecco come stanno le cose.»
«Ammetto che sia piuttosto spiacevole. Per non parlare della concomitanza.»
«Con centinaia di uomini al servizio dell’azienda, come cazzo è possibile che non ci sia nessuno libero?»
«Tutti in missione» si limitò a rispondere Killington.
Williamson sbuffò.
«Speriamo di non fare una cazzata.»
«Tra i militari congedati, Zhou è quello fisicamente più prestante, che è distante dall’azione da meno tempo e che prima della crisi ha conseguito i risultati migliori. La scelta è ovvia.»
«Che ore sono?»
Killington spostò lo sguardo all’angolo inferiore sinistro dei propri occhiali e le cifre apparvero brevemente.
«Tra pochi minuti saranno le due del mattino.»
«Quanto ci metterà ad arrivare?»
«Se riesce a prendere la prima capsula transoceanica, sarà a New York tra poco meno di dieci ore. Da lì arriverà al sito di partenza in un paio d’ore massimo. Diciamo che la nave potrebbe decollare verso le quindici o le sedici, con solo un paio d’ore di ritardo sulle previsioni.»
«Bene. Speriamo che questo Zhou non sia la solita testa di cazzo.»

Leggi  L'idolo d'avorio

 

Umani

 

Nessun bagaglio, nessuna commissione da sbrigare. Assolutamente vietato avvertire parenti, amici, amanti. Avrebbe pensato a tutto la Triple W, con comunicazioni neutrali e scuse plausibili. L’affitto e le utenze sarebbero state pagate sino al suo ritorno e avrebbe ricevuto, a missione compiuta, una cifra con abbastanza zeri da permettersi una realroom, una casa non olografica, e a mantenerla standosene in panciolle per un pezzo. Un anticipo di diecimila crediti era già stato versato sul suo conto bancario. Aveva controllato, era vero.
Tornare nello spazio a combattere. Non credeva che gli sarebbe mai stata ridata quella possibilità. A così breve tempo dal congedo, poi! Andava a fare l’unica cosa che sapeva fare. Non poteva fallire, non doveva fallire, o questa volta non avrebbe avuto altre chance.
Mentre il taxi sfrecciava rapido sulle rotaie magnetiche respirò a fondo, forzandosi a rilassare la muscolatura. Non ho tremiti. Non ho paura. Nessuna incertezza, nessuna esitazione. Io sono un marine. Un soldato. Un killer.
Il taxi imboccò la rotaia d’accostamento, fermandosi lungo la banchina della stazione transoceanica.
«Quanto le devo?» chiese al tassista, indeciso se fosse un robot o un cyborg cui era rimasto davvero poco di umano.
«La corsa è già pagata» replicò il conducente con voce sintetizzata.
«Ah. Bene. Arrivederci.»
«Arrivederci.»
Smontò dal taxi, che ripartì silenzioso, sospeso a un paio di centimetri dai binari, salì sulla piastra a levitazione assieme ad altre due persone e quella fluttuò fino all’altezza della biglietteria.
C’era molta fila ma un uomo vestito di grigio, con occhiali ultimo modello, tratti indiani e carnagione color crema gli si avvicinò. In una mano teneva una valigetta discreta, modello a disgregazione antifurto, come declamava il simbolo rosso frastagliato con un punto esclamativo stampatovi sul dorso.
«Il signor Zhou?»
«Sì?»
«Sono Abderahmann, della Triple W. L’aspettavo. Ho il suo biglietto. Mi segua.»
Cal obbedì, sentendosi un po’ intimorito dalla rapidità ed efficienza del colosso internazionale. Sapevano sempre dove fosse e in che momento esatto. Avevano pagato il taxi, prenotato la capsula – probabilmente spostando prenotazioni preesistenti, vista la fretta – preso i biglietti e mandato qualcuno ad aspettarlo. Impressionante.
«Tra quanto parte la mia capsula?»
«Sette minuti esatti.»
Cal fece un fischio.
Giunsero ai binari, dove decine di capsule identiche attendevano, vibranti, nelle loro postazioni. Erano poco più grandi di un’utilitaria, con spazio sufficiente per quattro persone, dalla forma a mandorla. La lega metallica con cui erano costruite era opaca e non si capiva dove fosse il reattore.
«Ha una capsula privata. Desidera compagnia?»
Cal pensò che la cosa lo avrebbe aiutato a rilassarsi, forse, ma scosse comunque la testa. Dormire. Doveva dormire. Probabilmente al suo arrivo non avrebbe più avuto il tempo per un simile lusso.
«Molto bene. Eccola, è la numero undici. Prego, salga a bordo.»
Cal gli strinse la mano ed entrò nella capsula, il cui portello si chiuse con un sibilo alle sue spalle.
«Benvenuto, gentile utente. Desideri oscurare il parabrezza o assistere al viaggio?»
«Assistere, grazie.»
La parete di fronte al sedile divenne come di vetro e il condotto transoceanico apparve davanti a lui, del tutto trasparente tranne che per i sostegni che lo sorreggevano a intervalli regolari.
«Venti secondi alla partenza. Prego, allacciare la cintura di sicurezza.»
Cal obbedì.
«Cinque, quattro, tre, due, uno…»
La capsula si staccò dalla sua postazione e scivolò in avanti a dieci, venti, quaranta, ottanta, centossessanta chilometri orari. Non appena la stazione fu alle loro spalle e il condotto si gettò in mare la velocità crebbe esponenzialmente, ma Cal non ebbe alcun sentore di ciò. Il rumore attorno a lui era ovattato e a un certo punto la capsula infranse il muro del suono. Chi fosse stato nelle vicinanze avrebbe udito il bang supersonico.
Assestandosi a milletrecento chilometri orari, la capsula scivolò attraverso il Pacifico, rendendo il panorama attorno a sé confuso.
«Gentile utente, desideri che venga proiettato un film? Desideri sentire un audio-romanzo? Desideri…»
«Luci basse e silenzio, grazie. Desidero dormire.»
«Molto bene.»
La parete ridivenne opaca e le luci si attenuarono sino alla semioscurità. Cal si accomodò e chiuse gli occhi.

Alle ore quattordici e cinquantotto Cal era in una stanza asettica, bianca, priva di porte e finestre visibili, con un unico tavolo e tre sedie. Era stato invitato a sedersi in attesa che arrivassero i responsabili per parlargli, ma aveva preferito passeggiare su e giù per la stanza per sgranchirsi i muscoli indolenziti dal viaggio.
Una fessura nera apparve in una delle pareti e si allargò quel tanto da far passare un uomo massiccio, sulla novantina, seguito da Killington, quello che lo aveva contattato nel locale di Nuova Hong Kong.
«Signor Zhou, noi ci siamo già presentati. Questo è il generale Williamson, responsabile dell’operazione.»
Cal tese la mano all’uomo, che quasi la stritolò tra le dita spesse e callose. Un vero duro, anche se attempato.
«Bando ai convenevoli, Zhou. Il tempo è poco. Tra poco meno di un’ora lei sarà sulla nave o saremo costretti a dare spiegazioni per il nostro ritardo. La cosa sarebbe spiacevole.»
Cal annuì, ritenendo non ci fosse nulla da dire.
«Per farla breve, la situazione è questa: la Triple W ha richiesto ventun detenuti speciali per una missione sulla Aefestus, una stazione spaziale attualmente in orbita attorno ad Arcturus IV, una luna dove sono state edificate una costosissima struttura di ricerca e un sito minerario che estrae tonnellate di silicio. Abbiamo perso i contatti con la luna, quindi abbiamo mandato una nave piena di marine e adesso abbiamo perso pure loro e la stazione. Qualcosa non funziona come si deve, lassù, e lei e i suoi uomini avete il compito di abbordare la nave, se necessario, e scoprire cosa cazzo stia succedendo. Tutto chiaro?»
«Chiaro, signore. Un po’… riassuntivo, direi.»
Williamson sorrise.
«Ai suoi uomini sono state date informazioni più dettagliate, ma non abbiamo tempo. Le fornirò, alla partenza, un supporto con tutto ciò che deve sapere. Avrà tutto il tempo per leggere e visionare quel poco che abbiamo, non si preoccupi. Quanto alla tuta in dotazione standard, non credo di doverle spiegare il suo funzionamento.»
«Nossignore.»
«Bene. Lei sarà l’unico dotato di una vera arma, se escludiamo la tuta. Sarà un MySaint EWD 4000, tarato sulla sua impronta genetica. Dovrebbe essere stato ultimato mentre lei era in viaggio, lo riceverà assieme alla tuta.»
«Molto bene, signore. L’arma mi è familiare, anche se non è di certo quella in dotazione standard ai marine. Ne avessimo avuto una a testa, di frammentatore particellare, probabilmente non mi sarei fermato a tredici navi karankatul.»
«Un MS EWD 4000 costa quattrocentocinquanta volte una lancia al plasma, Zhou. Saremmo falliti come pianeta prima che quei brutti crostacei ci abbiano invaso.»
«Molto divertente, signore. Posso fare una domanda?»
«Rapidamente. Intanto dirigiamoci alla rampa di trasporto.»
I tre si avviarono, Williamson e Cal in testa, Killington appena dietro di loro.
«I karankatul hanno qualcosa a che fare con questa faccenda, signore?»
«Non lo sappiamo. Personalmente lo ritengo molto probabile, ma non abbiamo alcuna prova effettiva. Non ci sono state segnalazioni di passaggio né di navi né di comunicazioni. È come se fossero stati sulla luna da prima di noi, perché nulla ha rilevato un effettivo avvicinamento e atterraggio di un qualsivoglia mezzo per il viaggio spaziale. Ma se così fosse, perché hanno atteso anni per fare la loro mossa? E come mai la Aefestus, un colosso militare straripante di soldati, con più sensori al metro quadro del cesso del presidente, da un secondo all’altro è piombato nel totale silenzio? Non una comunicazione, un s.o.s., la segnalazione di un’anomalia, niente. Ore otto e zero zero, stiamo tutti bene. Ore otto e zero uno, tutti spariti.»
«Strano.»
«Già, strano. Come lei saprà, avrà sempre un contatto foto-laser con noi. Io e Killington saremo con lei dodici ore a testa, fino a che la missione non sarà terminata.»
«O saremo tutti morti.»
«O sarete tutti morti.» convenne il generale.
Mentre parlavano erano giunti alla piattaforma di trasporto, un’enorme sala cilindrica contenente una sfera bianca perfetta, liscia, priva di alcuna apertura o imperfezione. Quattro grandi bracci meccanici la sorreggevano, tenendola sospesa a qualche metro da terra, e fitti intrecci di cavi li avvolgevano strettamente. I ventuno galeotti erano già lì, abbigliati anch’essi di tute bianche da astronauta, comode e neutrali all’occhio.
«Ecco la mia ciurma.» commentò Cal con accento piratesco.
«Il fior fiore degli assassini, dei piromani, degli stupratori… c’è solo l’imbarazzo della scelta.»
Williamson si fermò a pochi passi dagli uomini, schierati in fila davanti alla nave.
«Signorine, questo è il comandante Zhou, il vostro responsabile. Sarà lui al comando della missione e voi dovrete fare riferimento a lui per qualunque cosa. È vostro interesse comportarvi come vi viene richiesto, se volete che al vostro ritorno sulla Terra il vostro lavoro venga giudicato positivamente e la vostra pena ridotta a una forma temporanea. È chiaro?»
Ci fu qualche “sissignore” e “ok amico”.
Cal passò i suoi uomini uno a uno con lo sguardo, mentre un tremito gli prendeva la mascella. Serrò i denti e si piantò le unghie nei palmi, riuscendo a reprimerlo.
«Tu, qual è il tuo nome?»
«Grey Five, comandante.»
«Che razza di nome sarebbe?»
«I suoi uomini saranno dotati di nome in codice, Zhou. Questa è la lista. Queste le schede personali.»
«Bene, le leggerò subito. Non le sembra che Grey Five sia di… corporatura insufficiente per la missione?»
«La tuta annullerà il divario tra Grey Five e gli altri. Comunque, la scheda personale è degna di rispetto. Se così vogliamo dire.»
«Capisco. Uomini, io sono Cal Zhou. Potete chiamarmi semplicemente comandante, per amor di brevità. Al contrario di tutti voi, credo, ho passato otto anni nel vuoto e ho partecipato con successo a tredici abbordaggi alle navi karankatul. Quindi, se qualcuno di voi avesse voglia di fare lo spiritoso, lo invito sin da ora a prendere in considerazione il mio curriculum. Se non vi va bene il mio comando, potete sempre farvi una passeggiata a veder le stelle, allo zero assoluto. A voi la scelta.»
Senza attendere la reazione dei galeotti, Cal si volse verso Williamson.
«Partiamo immediatamente?»
«Immediatamente.» confermò lui.
«Bene. Tutti a bordo!»
Un portello circolare si aprì nel fianco della nave, accanto a una scala semovente, e Cal superò la fila di uomini, salendo per primo.
Williamson si voltò verso Killington.
«Forse il giovane stressato se la caverà, nonostante tutto.»
«Sembra sapere il fatto suo.»
Non appena l’ultimo della fila fu entrato, il portello si richiuse alle sue spalle. Le luci nella sala si abbassarono visibilmente a causa del momentaneo dirottamento massiccio di energia attraverso il dispositivo di frammentazione particellare, le cui estremità erano i bracci che sostenevano la nave.
«Sessanta secondi alla frammentazione!» tuonò una voce metallica nella sala.
All’interno dell’astronave, gli uomini si agitarono.
«Comandante, cos’è la frammentazione?»
«Qual è il tuo codice, soldato?»
«Red Six, comandante. E non sono un soldato.»
«Ora lo sei. Da questo momento tutti voi siete soldati, tenetelo bene a mente. Non so quali palle vi abbiano raccontato, ma sappiate solo che se un ergastolano del vostro tipo viene mandato in missione significa che ci sarà da menare le mani. Questo fa di voi dei soldati. Mercenari, se preferite.»
Un brusio di malcontento accolse le sue parole.
«Per chi non lo sapesse, a ogni modo,» continuò Cal, «la frammentazione è un processo che ridurrà tutti noi in niente più che particelle, astronave compresa, in modo che possiamo essere proiettati attraverso l’atmosfera in un fascio e ricomposti al punto di raccolta.»
«È doloroso?» chiese una voce.
«In genere no.»
«Ci sono pericoli?»
«Una volta un mio commilitone è stato deframmentato male. Appena arrivati aveva un braccio che gli usciva dalla testa.»
«E cosa gli è successo?»
«È morto.»
«Tanto valeva che ci giustiziassero sulla Terra.» commentò un nero dagli occhi gialli, le cornee iniettate di sangue, il cranio calvo lucido di sudore.
«Il tuo codice, soldato?»
«Blue Eleven. Comandante.»
«La statistica indica un margine di errore di deframmentazione inferiore allo zero virgola otto per cento. La cosa ti spaventa?»
Blue Eleven parve guardarsi rapidamente attorno, consapevole di essere al centro dell’attenzione.
«Non c’è cosa che mi spaventi!» quasi sputò fuori dai denti, assurdamente bianchi nel volto nero.
«Bene. Allora, vista la pasta di cui siete fatti, non credo che nessuno di voi cederà al panico della prima volta. Dico bene?»
Nessuno si prese la briga di rispondere.
Cal controllò lo schema lampeggiante sulla parete.
«Vi farà piacere sapere che siamo già stati trasferiti alla seconda delle quattro basi che ci distanziano dalla stazione di lancio.»
I detenuti si guardarono l’un l’altro, di sottecchi.
«Non stupitevi. La rapidità di trasmissione delle particelle è tale da richiedere pochi secondi per il raggiungimento della prima base, che è relativamente vicina alla terra. Lì siamo stati frammentati di nuovo e inviati alla seconda. Voi – io – non ne avete avuto sentore perché, ovviamente, in quel momento non eravate propriamente voi. Se anche il tutto fosse accaduto mentre qualcuno di noi parlava, una volta deframmentati avremmo semplicemente continuato da dov’eravamo rimasti.»
«Com’è possibile tutto questo? E perché, se è così rapido come metodo, non viene usato per collegare un pianeta a un altro?»
«Il processo è stato teorizzato dal fisico Virek, ben quattrocento anni fa, ma solo dopo un secolo ha trovato un’effettiva dimensione pratica. Non chiedetemi i dettagli, sono solo un marine, quel poco che so è confuso e incomprensibile.
Per quanto riguarda la seconda domanda, posso essere più chiaro: le particelle di cui siamo composti non passano attraverso gli oggetti. Questo significa che lo spazio che divide due punti – la Terra dalla Luna, per esempio – dev’essere completamente sgombro, o verremmo ricomposti in maniera incompleta e, ovviamente, moriremmo. Questa è la ragione per cui sono state costruite ben quattro basi di passaggio tra la Terra e la stazione di lancio, ovvero perché ognuna di esse possa dare il via alla precedente per la trasmissione particellare, controllando una data porzione di spazio perché sia sgombra e sicura. Se io volessi essere frammentato e spedito su Saturno, dubito che più del dieci per cento di me arriverebbe a destinazione. L’unica eccezione a questa regola è l’atmosfera terrestre, ma non per un fortuito caso, quanto piuttosto – a quel che ho capito – grazie ad alcuni studi sulla penetrazione dei particolari gas che la compongono. Il tutto, alla fin fine, si può riassumere con queste parole: lo spazio è tutt’altro che vuoto. Sono stato chiaro?»
«Sì, comandante. Per cui andiamo alla stazione di lancio. Da lì la nave andrà dritta all’obbiettivo?»
«Sì, esatto. Saremo assicurati a una spirale di reattori esplosivi al plasma. Questi ci forniranno l’accelerazione massima possibile, dopodiché si distruggeranno, diminuendo la nostra massa e facendoci acquisire ulteriore velocità. A quel punto le mie conoscenze di fisica cessano di essere sufficienti a spiegare ciò che accadrà, ma posso dirvi che, sempre sulla base delle teorie di Virek, è stato messo a punto un metodo di viaggio spaziale che permette di “scattare”, se mi passate il termine, attraverso le ampie porzioni di vuoto che attraverseremo. Questo ci permetterà di giungere a destinazione a una velocità di molto superiore a quella della luce, che impiegherebbe quasi due anni solamente a raggiungere il confine del nostro sistema solare.»
Mentre parlavano la nave era effettivamente giunta alla stazione di lancio e la spirale stava scivolando attorno allo scafo.
«È giunto il momento del lancio. Dovrebbero volerci circa un paio d’ore perché le operazioni vengano ultimate. Io userò questo tempo per analizzare con attenzione le poche informazioni che abbiamo sulla missione. Voi, invece, sedetevi su quei grandi sedili bianchi dalla forma ondulata. Ce n’è uno per ognuno, per un totale di ventidue, la capienza massima prevista per una nave di questo tipo. Una volta che vi sarete accomodati i sedili vi assicureranno a loro sino al termine del viaggio e sarete sottoposti a un processo di sospensione temporanea, in cui il vostro corpo invecchierà circa venti volte più lentamente del normale e la vostra mente sarà del tutto incosciente. Vi sveglierete con la sensazione di esservi appena seduti e, benché il tempo trascorso in quello stato dovrebbe aggirarsi intorno ai due mesi, per il vostro organismo sarà come fossero trascorsi solamente tre giorni. Se non ci sono domande, vi prego di prendere posto.»
Non ce furono.
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 4“]E ijiro Shimizu sentiva il terribile bisogno di grattarsi l’angolo dell’occhio. Era sempre così: più era concentrato e meno aveva la possibilità di muoversi incautamente, più i nervi lo tradivano. La guancia, la tempia, il naso, gli occhi… pareva che un esercito di formiche invisibili si divertissero a camminargli addosso quando aveva le mani occupate.
Lo strizzò, sperando di attenuare il prurito, ma non funzionò. Lo schermo a ingrandimento selettivo era ad un palmo dal suo volto, brillante di un blu che feriva la retina, e l’intrico di collegamenti neurali nella piastra che stava terminando pareva la trama di una foglia vista controluce. Avvicinò il micro-elettrosaldatore a un’interruzione tra due collegamenti e diede un colpetto con la punta, causando una scintilla che fuse le estremità delle due ramificazioni neurali della zona addetta alla memoria.
«Padrone.» lo chiamò una voce sintetizzata alle sue spalle.
«Zitta.» intimò senza muovere le labbra, temendo che una gocciolina di saliva cadesse a macchiare lo schermo.
Percorse con la punta una diramazione neurale, come la linea di una strada su di una mappa, grugnì soddisfatto e sollevò la testa con un gemito. Posò il micro elettro-saldatore sul ripiano di lavoro e si voltò verso il robot, in attesa alle sue spalle.
«Cosa c’è?»
«Padrone, ci sono due uomini alla porta. Dicono di avere un appuntamento. Nella mia agenda non è segnato. Volete che li mandi via?»
Eijiro si grattò il mento ispido di barba. Lavorava ininterrottamente da quattro giorni su quello schema neurale, mangiando a malapena e dormendo solo due ore ogni ventiquattro.
«Come dicono di chiamarsi?»
«Dicono di essere rappresentanti della Hardcom.»
«Ovvero, come la Softcom, di un sottogruppo della Triple W. Be’, non ricordo alcun appuntamento, ma dato che ho finito posso vedere cosa vogliono. Poi mi servono doccia, cena e dormire per un po’. Preparami tutto dopo che li hai fatti accomodare.»
«Sì, padrone.»
Teta-4, che non era altro che un volto femminile perfettamente umano montato su di un robot modello scrab, voltò il busto di centottanta gradi e uscì dalla porta sulle quattro lunghe e arcuate gambe di metallo. Eijiro non aveva dato un nome né un aspetto umano a Teta-4 perché era solamente un robot domestico, ma aveva applicato un volto sul gruppo di sensori che aveva nella testa perché lo infastidiva la serie di led e laser che a intermittenza si accendevano e spostavano. Non si era preoccupato di dare anche una mobilità al volto; era solo una maschera e, dato che era femminile, quando ci parlava si riferiva alla macchina usando quel genere.
Due uomini, un nero e un orientale alti e distinti, in abiti grigi fatti su misura e data-cravatte lucide come scarpe di vernice, entrarono nel suo laboratorio. Indossavano entrambi occhiali di modello estremamente avanzato, costosi, e avevano volti neutrali perfettamente sbarbati.
Eijiro calcolò che con i soldi necessari ad acquistare un solo paio di quegli occhiali avrebbe potuto terminare il dispositivo ottico che, ormai da mesi, giaceva incompleto su di uno scaffale.
«Signori.» salutò, asciutto.
«Signor Shimizu!» salutarono in coro i due.
Si guardarono per un attimo attorno, forse cercando un posto dove sedersi, ma non ve n’era. Il laboratorio era un susseguirsi di ripiani di lavoro, macchinari, componenti meccanici e prototipi. Un’unica sedia a scorrimento magnetico era presente nella stanza, ed era occupata dallo scienziato.
Eijiro non li invitò ad accomodarsi né ordinò al robot domestico di procurare delle sedie.
«Desiderate?»
«Signor Shimizu…»
«Dottor Shimizu.» lo corresse lui.
«Be’, dottor Shimizu…»
«Ma potete anche chiamarmi professore, se volete.»
Il nero esitò.
«Abbiamo sentito dire che state mettendo a punto un nuovo androide.» intervenne l’orientale.
Eijiro squadrò l’uomo, passando lentamente lo sguardo sulle scarpe mappali, la valigetta a disgregazione antifurto, la data-cravatta, gli occhiali multi-accessoriati.
«Avete sentito.» si limitò a commentare.
L’uomo sorrise, pensando forse di instaurare un rapporto di simpatia basato sul “sai com’è, è il nostro lavoro, non prendertela”, ma Eijiro rimase impassibile.
«A ogni modo, come rappresentanti della Hardcom saremmo interessati a vedere il suo lavoro.»
«Ma davvero. A che scopo, se è incompleto, mi chiedo io.»
«Potremmo verificare se è in linea con i progetti della nostra azienda e, se lo fosse, potremmo acquistare sin d’ora i brevetti.»
«Addirittura. In anticipo, senza nemmeno la garanzia di un lavoro terminato e correttamente funzionante. Tanta fiducia mi lusinga.»
I due uomini sorrisero, convinti di aver fatto breccia.
«Dottor…»
«Professor…»
«Ma,» li interruppe Eijiro, «non sono interessato. Grazie della visita.»
I due uomini esitarono.
«Dottor Eijiro, ma è proprio sicuro…»
«Professore, non sarebbe comunque l’inevitabile conseguenza del suo lavoro…»
I due si accavallarono parlando, sovrapponendosi e rendendo il tutto confuso e incomprensibile. Eijiro sospirò, spazientito.
«In quarant’anni, ho sviluppato centinaia di modelli di automi, alcuni dei quali sono diventati tra i più apprezzati e utilizzati al giorno d’oggi. Di questo siete consapevoli?»
«Certo!»
«Lo sappiamo!»
«Dell’androide domestico Teta-5 sono stati venduti trecentoquarantasettemila esemplari. Non fate quelle facce, lo so che non lo sapete. Ve lo dico io. Il prezzo individuale di ognuno di essi è di circa sessantaquattromila crediti, senza contare sconti, omaggi e promozioni. Ora vi chiedo,» disse facendo un ampio gesto attorno a sé, «questo vi sembra il laboratorio di un milionario?»
I volti dei due uomini si accesero di comprensione.
«Le assicuriamo che la nostra azienda…»
«La vostra azienda,» li fermò Eijiro a denti stretti, «ha assorbito la Western Hardware, che a sua volta era stata fondata dal consiglio di amministrazione della All Robotics, ovvero un frammento della mastodontica Hard&Soft che, se posso permettermi, ha un nome ambiguo. Tutte – e voi lo sapete, proprio tutte – le aziende che ho elencato altro non sono che ramificazioni della tentacolare Triple W. La stessa multinazionale, o forse dovrei chiamarla multiplanetaria, che ha acquisito dodici dei miei brevetti nel corso degli anni, brevetti che hanno garantito incassi per miliardi. La Triple W, ogni volta, ha schiacciato la mia persona e annullato i miei meriti con il suo esercito di avvocati, di clausole e postille contrattuali, di eccezioni legali e solo il demonio sa cos’altro. Quindi,» terminò schioccando le dita, al che Teta-4 apparve nella sala, «se non avete una valigetta piena di contanti, vi invito ad andarvene.»
«Prego, signori, da questa parte.» disse Teta-4 con il suo tono neutrale, indicando la porta.
I due uomini si guardarono per alcuni istanti, quindi si voltarono e uscirono impettiti.
Eijiro sospirò, lanciò un’ultima occhiata alla piastra neurale – grande appena come un francobollo – e si alzò faticosamente in piedi. La schiena gli doleva e lo costringeva a stare un po’ curvo in avanti, ma erano gli effetti collaterali del suo mestiere. Qualche seduta in una clinica e sarebbe stato come nuovo. Con i soldi promessigli per il nuovo robot, la qualità della sua vita sarebbe nettamente migliorata.
«Padrone, la cena è servita.»
Eijiro fece un gesto e Teta-4 si ritirò. Si assicurò che il blocco della porta d’ingresso fosse attivo, quindi entrò nell’appartamento vero e proprio, che in quel momento appariva come un cucinino vintage anni settanta, con i suoi assurdi angoli arrotondati e l’illuminazione a led azzurra. Sedette al minuscolo tavolo, dove una cena abbondantemente annaffiata di vitamine e integratori lo attendeva, opportunamente corretta con aromi che nascondessero il terribile sapore di quei medicinali a lui indispensabili per poter lavorare con i ritmi massacranti che si imponeva. Mangiò lentamente, la testa pesante, le membra come vuote, spossate, gli occhi in fiamme, il lumicino di un mal di testa che baluginava dietro la fronte, lungo il collo, nelle tempie.
Il suo contatto si sarebbe fatto vivo durante la notte, gli aveva fatto sapere. La Triple W lo teneva sotto controllo a causa del suo lavoro, e ricevere messaggi e persone di nascosto era oltremodo complesso. Per poter dialogare con il suo contatto, al servizio di qualche azienda avversaria del colosso multiplanetario, era stato costretto a ricorrere a un codice attraverso gli ordini ai corrieri per ricevere pezzi al laboratorio.
Non vedeva l’ora di incontrarlo. In parte perché gli aveva promesso pagamento anticipato, in contanti e congruo, in parte perché vendere un prodotto di simile qualità a un avversario della Triple W rappresentava per lui una soddisfacente vendetta.
Scostò il piatto, posò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi, in attesa che medicinali e integratori facessero il loro effetto, che il contatto giungesse, che il suo lavoro fosse finalmente premiato come conveniva.

 

Umani

 

Cal era sveglio già da alcune ore quando gli strumenti segnalarono la presenza della Aefestus a portata delle manovre d’attracco. Aveva impostato la nave perché lo destasse quando fossero entrati nello spicchio di sistema contenente Saturno II.
L’immenso pianeta gassoso, così chiamato per la rassomiglianza di mole con Saturno e i numerosi anelli che lo circondavano, era ora tanto grande da riempire completamente la visuale concessa dall’oblò dell’astronave, una porzione di fusoliera appositamente resa trasparente per poter vedere l’esterno con gli occhi anziché con gli strumenti. La notevole forza di gravità che esercitava era segnalata sugli schermi, ma la nave aveva corretto la propria rotta in modo da assecondarla, entrando in orbita anziché contrastarla.
Cal controllò la velocità di crociera e la confrontò con quella della Aefestus, decisamente superiore alla loro. Il terminale di bordo gli comunicò che al contatto visivo con l’obbiettivo mancavano due ore, quarantacinque minuti e tre secondi. A quel punto, utilizzando la sequenza d’attracco standard, la nave si sarebbe avvicinata alla stazione orbitante e vi sarebbe attraccata.
C’erano, dunque. Cal aveva letto tutta la documentazione a sua disposizione innumerevoli volte, sia quella riguardante la missione che quella sui suoi uomini. Per avere le idee maggiormente chiare, aveva scaricato dal database della nave tutto ciò che era possibile sapere su Arcturus IV e sulla Aefestus, sperando che ciò fosse utile durante l’azione.
Il terminale si illuminò di verde e un contatore segnalò sessanta secondi al risveglio dell’equipaggio. Avrebbero avuto giusto il tempo di riprendersi dalla sospensione, prima di dover salire sulla stazione.
Le luci si accesero di colpo – sino a quel momento Cal si era mosso nel rosso riverbero di quelle di servizio – e un sibilo annunciò l’immissione di maggior ossigeno nelle maschere dei ventuno galeotti, accompagnato dall’energica vibrazione dei sedili che risvegliavano i muscoli e favorivano la circolazione del sangue. Una dose di adrenalina, mescolata a un cocktail energetico ricco di vitamine, zuccheri semplici e liquidi mineralizzati, venne iniettata nei corpi.
Mentre i primi colpi di tosse segnalavano il risveglio dell’equipaggio, Cal si diede una spinta coi piedi contro la paratia e fluttuò agilmente verso un pannello di comandi, dove azionò la rotazione della nave perché la gravità passasse da nulla a 0,5 G, ovvero la metà di quella terrestre.
«Ehi comandante!» esclamò una voce alle sue spalle, «siamo arrivati?»
Cal si voltò verso un sudamericano dal cranio rasato, due croci celtiche tatuate sulle tempie. Aveva gli occhi iniettati di sangue e un colorito grigiastro, ma sorrideva spavaldo e non pareva affatto intimorito né disorientato.
«Il tuo codice, soldato?»
«Red Two.»
«Siamo a poco meno di tre ore dal contatto visivo con la Aefestus.»
Red Two sorrise.
«Quasi nella bocca del leone.»
Cal non replicò, scorrendo con lo sguardo il suo stravagante equipaggio. Neri, orientali, bianchi… ce n’era per tutti i gusti. La maggior parte di loro non aveva alcun innesto, perlomeno visibile, forse con l’idea di non dare troppo nell’occhio. In un mondo di individui modificati, avere tratti eccessivamente normali attirava invece l’attenzione, a suo parere, ma si tenne il commento per sé. Vide Grey Five che cadeva in ginocchio nello scendere dal sedile, tossendo ossigeno liquido, il corpo scosso dai tremiti. Avrebbe avuto problemi, lo sapeva già da quando aveva fatto notare la cosa al generale, ma sperava non tali da mettere a rischio la missione.
Si morse il labbro inferiore, inconsciamente, e notò che tranne Grey Five nessuno degli altri aveva vomitato o aveva avuto svenimenti. Non avevano un bell’aspetto, dopo la sospensione, ma erano comunque dei veri duri.
«Bene, uomini,» esordì, «manca poco perché entriamo in vista del nostro obbiettivo. Prima di allora, tutti voi dovrete aver indossato la vostra tuta, è categorico. Non sappiamo in quale stato sia la Aefestus, ma dobbiamo per forza presumere il peggio per essere preparati a ciò che ci potrebbe attendere. Per quel che ne sappiamo noi, dato che non abbiamo più avuto risposta dall’equipaggio, potrebbe non esserci più un briciolo d’ossigeno a bordo, potrebbero esserci degli incendi o delle falle, una breccia tale da essere al di fuori delle capacità autonome della stazione. Il che significherebbe atmosfera inesistente, niente pressione né gravità, tutti morti. La tuta è il vostro miglior amico, fintanto che saremo sulla Aefestus. Chiaro?»
Ci fu un coro di risposte affermative. Per la prima volta da quando avevano lasciato le loro celle, i galeotti erano veramente attenti.
«Come vi ha già detto il generale, la tuta non è solo la vostra unica speranza di sopravvivere alle condizioni avverse, ma è anche un’arma. Usatela con criterio, soprattutto i primi momenti che la indosserete, perché non avete ancora la percezione delle sue effettive possibilità e potreste causare danni irreparabili senza volere. Tra quattro ore il vostro corpo si sarà sufficientemente ripreso per affrontare un pasto come si deve, ma per quel momento saremo di nuovo qua. La prima uscita esplorativa non deve durare più di mezz’ora. Il suo scopo sarà più che altro farvi abituare alla tuta.»
Cal si grattò il mento. La barba gli stava crescendo, facendogli prudere la pelle. Odiava non essere sbarbato, ma in quel momento le priorità erano altre. Inoltre, era da tempo che non si sentiva così sicuro di sé. Gli psicologi si sarebbero ben stupiti nel constatare che la cura migliore per il suo stress fosse trovarsi nuovamente sul campo.
Il timer segnalava oramai un’ora e cinquantaquattro minuti al contatto visivo.
«Molto bene. Adesso indossate le tute, vi farò vedere come fare ad attivare le scarpe magnetiche, dove si trovano gli indicatori dell’ossigeno e termico e così via. Forza.»
Meno di due ore dopo, il terminale lampeggiò di azzurro e a un comando di Cal gran parte della fusoliera nella direzione opposta al loro moto divenne trasparente. La superficie striata di Saturno II, con i suoi colori ocra e giallo, terra di Siena e grigio, apparve nei tre quarti di visuale alla loro destra. Numerose spirali ne punteggiavano la superficie, così grandi da essere visibili a occhio nudo da lì, ma nonostante la grande velocità a cui si muovevano dal loro punto di vista, in orbita a migliaia di chilometri orari, parevano immobili. Nella porzione sinistra uno spicchio di spazio nero, di un colore e una consistenza che poteva solo far pensare al nulla, si riempì con discreta rapidità del corpo opaco della Aefestus.
La stazione orbitante era un poliedro, il cui corpo non riempiva l’area né il volume dello stesso, ma era costituito da un alto numero di sezioni cilindriche che collegavano gli angoli gli uni agli altri, formando i lati delle facce e allargandosi in sfere laddove si intersecavano tra di loro. L’intera superficie era coperta da una miriade di antenne, portelli, fari, ma tutto appariva buio ai loro occhi, mentre avrebbe dovuto essere luminosa come un albero di natale.
«Non c’è energia. Brutto segno.»
«Non potrebbero essere semplicemente spente le luci?» chiese uno dei galeotti, un uomo dai tratti mediorientali e una barba appuntita.
«Se a bordo ci fosse qualcuno di vivo, sarebbe completamente al buio. I casi sono due: o l’energia manca, e allora sono tutti morti, o i generatori sono spenti o le loro connessioni scollegate, il che porta comunque l’equipaggio a essere morto.»
«Che prospettiva rassicurante.»
«Se sono tutti morti, potremo perlomeno tornare a casa.» disse speranzoso uno.
«Non ci contare,» commentò Cal, «perché è probabile che da terra ci chiederanno, a questo punto, di scendere sulla luna a vedere cosa sia successo alla base scientifica.»
«Magnifico.»
«Cosa saremmo venuti a fare, sennò?»
«Non avremmo dovuto solo vedere cos’era successo e comunicarlo?»
«E voi pensate davvero che la Triple W spenderebbe milioni per mandare ventidue uomini nello spazio con una navetta d’ultima generazione così, solo per sentirsi dire: “niente, sono tutti morti”? Probabilmente ci saranno dei file da recuperare, qualcosa.»
«Già, ha senso…»
«Siamo qua, quindi facciamo quel che dobbiamo fare e torniamo col culo al caldo. Non vedo l’ora di riabbracciare la mia cella.»
«Con tutti gli ergastoli che ti hanno dato, dovresti riportare la Aefestus sulla Terra trainandola con i denti, per avere uno sconto della pena.»
«Ah! Molto divertente!»
Cal inserì la sequenza di attracco automatico e il terminale lampeggiò di rosso.
«Come temevo.»
«Cosa succede, comandante?»
«Dato che la stazione è senza energia, non c’è alcun radiofaro con cui la nostra nave possa interfacciarsi. Sarò costretto ad attraccare manualmente.»
«Ed è pericoloso?»
«Questa nave non l’ho mai pilotata, ma ho una certa esperienza di volo spaziale. Non dovremmo avere problemi.»
Sedette al posto di guida e si allacciò la cintura a x.
«Sedete e legatevi. Non garantisco che sarà una cosa piacevole.»
Mise le mani sul pannello luminoso, in corrispondenza di due cerchi pulsanti.
«Attivare controllo manuale.»
Il terminale lampeggiò di giallo e la nave sussultò, mentre virava da robo a bio e Cal ne prendeva il controllo.
La nave e l’equipaggio attorno a lui sparirono. Tutto divenne nero e Saturno II apparve alla sua destra, mentre il reattore laterale si attivava e lo spingeva fuori dall’orbita, verso il punto di contatto con la Aefestus. La stazione, vista da quella prospettiva, si avvicinava a velocità terribile.
Ora che era in contatto col bio-terminale, lui era la nave. Il suo corpo non era più carne, ma gelido metallo. Le sue proporzioni erano cambiate, la sua mole ingigantita, la sua potenza sterminata.
Manovrò in modo da trovarsi appena a lato dell’orbita della Aefestus, impiegando non poca energia per mantenersi immobile mentre la stazione si avvicinava rapidamente. Non appena fu a qualche secondo di distanza dal contatto Cal accelerò, affiancandola e assecondandone la traiettoria; non appena la velocità della nave fu eguale a quella dell’obbiettivo, aggiunse potenza ai reattori laterali e cominciò ad avvicinarsi. Uno dei radiofari, un globo del medesimo colore della fusoliera della stazione, era lì, davanti a lui. Sarebbe stato impossibile riconoscerlo senza sapere in anticipo di cosa si fosse trattato. Un portello ovale si trovava appena al di sotto del livello del radiofaro spento, circondato da un cilindro cavo costituito di anelli magnetici scollegati tra loro. Senza energia, questi ultimi non avrebbero potuto bloccare la nave in posizione d’attracco, quindi Cal si trovò costretto, mentre oramai la Aefestus riempiva per intero la sua visuale, a poggiarsi contro la parte inferiore – almeno dal suo punto di vista – dello scafo dove, simili a zampe di ragno, otto braccia meccaniche articolate erano in attesa. Si trattava del sistema di attracco manuale, ma aveva un difetto: andava appunto attivato a mano.
Cal passò da bio a robo, stringendo i denti mentre la sensazione di precipitare gli faceva sobbalzare le membra. Il terminale riapparve davanti a lui e mantenne saldamente la posizione in cui era rimasto, ma una serie di spie si attivarono immediatamente, lampeggiando vistosamente.
«Comandante! Che succede?»
«Il sistema d’attracco è spento. Bisogna usare quello manuale, ma io non posso allontanarmi dal terminale. Vedete queste spie? Segnalano un’interferenza tra il moto della Aefestus e l’attrazione gravitazionale del pianeta. La nave deve contrastare questa forza, eguagliare la velocità della stazione e la sua traiettoria in tre dimensioni. Semplicemente, da un momento all’altro potremmo sbandare contro la fusoliera e venire disintegrati.»
«Cosa si può fare?»
«Io non posso allontanarmi da qua. Se il terminale avesse dei problemi, devo riuscire a compensarli in tempo reale. Uno di voi deve uscire.»
Calò il silenzio. I galeotti si guardarono l’un l’altro, increduli, e alcuni si allontanarono di un passo dal comandante, che voltava loro la schiena.
«Allora, siete tutti diventati muti? Siete o non siete i più pericolosi esseri umani della Terra? Dove cazzo è finito il vostro “duro e cattivo”, eh?»
«Andrò io.» disse Grey Five facendo un passo avanti.
Ci furono alcuni commenti e un paio di risolini. Cal guardò Grey Five per un istante, con la tuta già indosso, e annuì.
«Bene. Ti guiderò via radio. Vai alla camera di gravità.»
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 5“]Due uomini, armati di aero-dissuasori – un’arma silenziosa ed efficace per stordire il nemico – scivolarono lungo il vicolo come ombre. Il laboratorio di Eijiro aveva un unico ingresso in quello spazio angusto, ma essendo grande come cinque o sei appartamenti di livello medio era dotato di alcune finestre e fu a una di queste che essi puntarono, sicuri.
Uno dei due si arrampicò agile lungo il condotto dei rifiuti, che collegava tutti gli appartamenti dell’edificio al centro di raccolta sito sotto alla strada, dove tubi pneumatici inviavano ogni tipo di scarto ai rispettivi centri di riciclaggio. A circa tre metri dal terreno si apriva una finestra grande un metro per uno, il cui unico scopo era far penetrare un po’ di luce esterna nella stanza sottostante. Non poteva essere quindi aperta, ma il primo uomo spruzzò con cura la cornice con una bomboletta, attese alcuni secondi e poi applicò al vetro una mano, il cui guanto vi aderì come una ventosa. In pochi istanti un sibilo si fece sentire nel silenzio e la finestra si distaccò dalla sua sede, rimanendo attaccata alle sue dita. L’uomo fece un cenno al suo compagno perché l’afferrasse al volo e la lasciò cadere, quindi scivolò nel laboratorio.
Atterrò, felpato, sul pavimento uniformemente bianco, pensato perché ogni micro-componente che vi fosse caduto risultasse ben visibile. Un istante dopo, il suo compagno fu al suo fianco.
Si divisero e cominciarono a filmare tutto ciò che stava sui banchi di lavoro. Estrassero progetti e documenti dai cassetti, che Eijiro romanticamente stilava a mano prima di passare alla fase pratica, attaccarono spie downloader ai terminali, frugarono ovunque. Quindi si spostarono alla sala adiacente, anch’essa un laboratorio e ricominciarono con il loro lavoro.
Mentre erano intenti in questo, non si resero conto di un dispositivo oculare attivo collegato wireless al terminale di guardia. I due uomini, da professionisti, avevano una schermatura contro le comuni telecamere, ma non potevano immaginare che l’occhio di un robot fosse stato adattato allo scopo e mimetizzato tra i prototipi. Il terminale di guardia avvertì il movimento e lo segnalò a Teta-4, che uscì dalla cabina di ricarica e avanzò rapida sulle quattro zampe articolate.
I due uomini avvertirono il rumore molto prima che l’androide apparisse, ma quando spararono con gli aero-dissuasori non sapevano che Teta-4 fosse un robot al cento per cento, immune al disturbo dello sbalzo di pressione atmosferica. Non aveva timpani né vasi sanguigni e di certo non aveva un cervello biologico che potesse venire stordito o confuso.
«Allarme nel laboratorio due!» urlò il suo altoparlante interno a un volume assordante, «Allarme nel laboratorio due!»
I due uomini staccarono i taser dalle cinture e si avventarono contro l’androide, che essendo solamente di tipo domestico non fu in grado di reagire efficacemente all’attacco. Allontanò un uomo, senza tuttavia essere autorizzato dal suo software a danneggiarlo o stordirlo, e una potente scarica elettrica percorse i suoi circuiti quando fu colpito. Il suo hardware sibilò, mentre il sistema si spegneva per un decimo di secondo e si riavviava immediatamente grazie al safe gear, un dispositivo di controllo originariamente ideato per i robot manutentori delle linee elettriche.
«Allarme nel laboratorio due!»
Eijiro, che era addormentato col capo sul tavolo dove aveva cenato, si riscosse di colpo, perfettamente lucido a causa delle droghe di cui faceva uso. Si alzò, quasi inciampando nella vestaglia che indossava, e si precipitò in direzione del laboratorio due.
«Fermi! Ladri!» urlò, accendendo la luce.
Teta-4 venne colpita in quel momento da un’altra scarica e il suo safe gear, vecchio di anni e mai revisionato, cedette. La sua neuro-piastra frisse e le sue schede di controllo e memoria si disattivarono. Le braccia caddero inerti lungo i fianchi e la testa si abbassò in avanti, come quella di qualcuno che si addormenti seduto.
«Ladri!» urlò Eijiro fuori di sé, afferrando un prototipo di frammentatore particellare dal tavolo di lavoro al suo fianco. Era stato lui a inventarlo, anni prima, e la Triple W gliel’aveva pagato circa seicento crediti, con rate semestrali spalmate su dieci anni.
Lo puntò contro il primo uomo e premette il grilletto. Un fascio di radiazioni lo investì, frammentando le particelle di cui era composto, e quello semplicemente svanì in uno sbuffo di fumo. L’aria fu pervasa da una nebbiolina di particelle sospese, mentre altre precipitavano a terra, formando un cumuletto di polvere insignificante. Nessuno avrebbe mai detto che un uomo fosse composto di così poca sostanza, nella sua totalità.
Il secondo intruso sollevò l’aero-dissuasore e sparò a Eijiro, che vacillò. I suoi timpani vennero compressi e il suo senso dell’equilibrio alterato, mentre le palpebre gli vibravano come investite da un getto d’acqua e gli occhi gli venivano schiacciati nel cranio. Crollò a terra, svenuto, mentre l’arma scivolava sul pavimento bianco.
L’uomo si guardò attorno, lanciò un’ultima occhiata a Teta-4 e si avvicinò allo scienziato privo di sensi. Gli diede un calcio nel costato, ma non ottenne una reazione. Una volta raccolta l’arma con cui era stato frammentato il suo compagno si avviò rapido verso la finestra da cui era penetrato, certo che oramai un qualche antifurto avesse segnalato l’intrusione alle forze dell’ordine o a un’azienda di vigilanza privata.
Spostò un tavolo sotto la finestra, tre metri più in alto, vi montò sopra e saltò, appendendosi alla cornice. Fece per issarsi, ma una pistola a percussione fonica gli toccò la fronte, paralizzandolo.
«Se fossi in te, tornerei verso il basso. Con calma.»
L’uomo obbedì, lasciandosi cadere sul tavolo, e dietro la lunga canna emerse il tamburo dell’arma, sostenuto da una mano guantata di nero. Un volto parzialmente coperto da un visore metallico emerse dalla finestra e guardò verso il basso.
«Poggia il frammentatore e il dissuasore a terra. Bene. Ora fai due passi indietro. Più lunghi, non fare il furbo. Ora sdraiati faccia a terra. Ti conviene obbedire, o ti faccio uscire il cervello dalle orecchie. Ecco, bravissimo. Mani sulla testa.»
La figura si lasciò cadere sul tavolo sottostante, agilmente, e con un saltello raggiunse il pavimento. Raccolse ciò che l’uomo aveva poggiato a terra e si avviò verso la porta del laboratorio, sempre tenendolo sotto mira.
«Ora aprirò la porta. Stai fermo.»
L’uomo a terra scattò in ginocchio e rotolò dietro a un tavolo, mentre la figura impugnava l’aero-dissuasore e mirava al mobile. Sparò una serie di colpi e il deco-mobile si smontò, tornando ad essere una semplice piastra di plasto-lega. L’uomo accucciato dietro venne bersagliato da una pioggia di componenti, mentre la figura sparava un altro colpo e lo mandava a terra, stordito.
«Questo dovrebbe bastare.»
La figura passò nel laboratorio uno, si guardò un attimo intorno ed entrò nella cucina dove Eijiro si era addormentato. Tornò indietro e provò un’altra porta, trovandosi in un breve corridoio che dava sull’ingresso. Un tastierino numerico all’esterno permetteva l’accesso al locale, ma dall’interno c’era una semplice maniglia a senso unico. Per essere uno scienziato geniale, Eijiro non si era mai convertito alle moderne porte a riconoscimento né aveva ideato qualcosa di personalizzato per la sicurezza dei suoi studi.
La figura aprì la porta e fischiò. Subito due sagome emersero dalla penombra del vicolo ed entrarono nel laboratorio.
«Che è successo? Ho sentito un certo trambusto.»
«Qualcuno stava per defilarsi con un bel bottino di informazioni, dopo aver messo kappaò il dottore.»
«Chi?»
«Un uomo. È a terra senza sensi, vittima della sua stessa arma. Credo ce ne fosse un altro, ma il professore deve averlo frammentato. C’era questo prototipo, addosso all’uomo. Non credo fosse suo.»
«Vedo. Andiamo, forza.»
I tre tornarono nel laboratorio e, mentre uno legava il ladro con dei cavi presi da un tavolo, gli altri due si chinarono attorno ad Eijiro.
«Uso un impulso?»
«Sì.»
L’uomo pungolò lo scienziato con una pallina colorata terminante in uno spillone e questo riprese subito i sensi. Guardò stordito i due che lo sovrastavano e si alzò a sedere, vacillante. Un rivolo di sangue gli usciva da un orecchio.
«Ah… cosa…»
«Un ladro. L’abbiamo fermato. Ha usato su di lei un aero-dissuasore. C’è andato pesante.»
«Vorrei ben vedere, dopo quello che ho fatto al suo amico.» brontolò Eijiro.
Uno dei due sorrise.
«Di lui non è rimasto abbastanza da risalire alla sua identità. Solo un mucchietto di inutili particelle.»
«E l’altro?»
«L’abbiamo pagato con la sua stessa medicina.»
«Bene,» annuì lo scienziato, «aiutatemi.»
I due lo presero per un braccio ciascuno e lo fecero alzare, sorreggendolo mentre recuperava il senso dell’equilibrio.
Eijiro lanciò un’occhiata a Teta-4, quasi con rimpianto, ma si riscosse subito.
«E voi chi sareste?»
«Avevamo appuntamento, dottore, si ricorda? Quando siamo arrivati, abbiamo notato la finestra senza vetro. Poi abbiamo sentito dei rumori e un altoparlante che dava l’allarme. Lo so, siamo stati un po’ lenti a reagire, ma non siamo mercenari. Al contrario degli uomini che le hanno mandato contro.»
«Cosa diavolo volevano? Chi erano?»
«A giudicare dal contenuto di questa borsa, il loro obbiettivo erano i suoi progetti. Quanto a chi fossero, tante possibilità ma nessuna certezza. A ogni modo lo scopriremo. Abbiamo intenzione di portarla con noi.»
«Dove?»
«Qua non è più sicuro. La porteremo alla nostra sede. Là, per ora, la Triple W e dalle sue affiliate non possono trovarci. Dobbiamo distruggere tutto. Nessuna traccia.»
«Distruggere il mio laboratorio?» chiese Eijiro con un tremito nella voce.
«Abbiamo un mezzo qua fuori. Ci carichi tutto ciò che le serve. Poi daremo fuoco a questo posto. Cancelleremo le sue tracce. Ma dobbiamo sbrigarci. Non serviranno che pochi altri minuti prima che qualcuno si renda conto che qualcosa è andato storto.»
Eijiro esitò, quindi annuì.
«Faccio in fretta.»
«Il grosso è già qua dentro, professore» disse quello col visore.
Mentre Eijiro raccoglieva dati e schemi, i tre osservarono l’uomo privo di sensi. Un distorsore somatico era attivo da qualche parte nel suo equipaggiamento, perché il suo volto era una macchia confusa di colore, impossibile da riconoscere. Roba sofisticata, costosa.
«Si accettano scommesse sui mandanti.»
«Io non scommetto.»
«Paura di perdere?»
«Più che altro, sono sicura di perdere.»
L’uomo rise.
«Ai, bisogna che tu vada a prendere il mezzo. Noi sistemiamo il piro.»
La ragazza, il volto coperto da un cappuccio in-out, annuì e corse fuori dal laboratorio. L’uomo estrasse un oggetto simile a un grosso fagiolo rosso brillante di tasca e lo lasciò cascare a terra. Subito la scorza si aprì e la temperatura nella stanza salì percettibilmente, mentre un filo di fumo iniziava a levarsi dal pavimento.
«Ha fatto, professore?»
«Ci sono quasi!»
«Presto. Tra pochi minuti, qua dentro sarà tutto fuoco.»

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Umani

 

Il portello si chiuse alle sue spalle e Grey Five respirò profondamente, mentre l’aria nella camera veniva risucchiata via. La luce ambientale da rossa virò al verde e il portello d’uscita si aprì, affacciandosi sulla struttura della Aefestus.
«Grey Five, mi senti?» disse una voce nel casco.
«Sì, comandante.»
«Bene. Ora ascoltami attentamente. Attiva le scarpe magnetiche come vi ho spiegato prima.»
«Ok. Fatto.»
«Bene. Adesso cammina verso l’esterno. Ricordati di muoverti lentamente, in modo che i magneti intelligenti capiscano quando devono sganciarsi per lasciarti sollevare il piede e viceversa. Tra te e la fusoliera della stazione ci saranno forse due metri. Non c’è gravità, quindi ti devi dare una spintarella. Piccola, mi raccomando, o finirai fuori bordo. Non devi considerare la parabola del balzo, ma solo spingerti nella direzione in cui desideri andare. Non appena toccherai la Aefestus, le tue scarpe magnetiche dovrebbero attivarsi da sole.»
«Ok.»
Grey Five esitò alcuni istanti, piegò le gambe e si spinse in avanti. Scese di un paio di metri rispetto al portellone e toccò la stazione, agganciandovisi.
«Molto bene. Ora devi dirigerti al più vicino di quei bracci articolati che vedi, tipo zampe di ragno. La nave è in posizione, più o meno, ma devi farli scorrere sui binari fino a che i loro artigli non saranno all’altezza degli anelli sulla fusoliera. A quel punto devi abbassare la leva.»
Grey Five annuì, senza pensare che Cal non potesse vedere il gesto, afferrò la sbarra di uno dei bracci e lo tirò verso di sé.
«Mi raccomando, mentre fai forza non mollare mai la presa, o potresti perdere il contatto col terreno.»
«Ok.»
Una volta che l’artiglio fu in posizione, fu sufficiente abbassare la leva – che oppose non poca resistenza – e il braccio scattò come una molla in avanti, appigliandosi all’anello sulla fusoliera.
«Fatto.»
«Bene! Ora fallo altre tre volte. Quando almeno quattro bracci saranno assicurati, potrò scendere a darti una mano.»
Ci volle quasi mezz’ora perché Grey Five, una volta presa confidenza con l’assenza di gravità, le scarpe magnetiche e i movimenti rallentati, terminasse il lavoro. Non fu necessario che Cal uscisse dalla nave, perché alla fine riuscì a mettere in posizione sette bracci su otto da sé. L’ottavo era danneggiato, forse per la collisione con un corpo vagante, e non fu possibile spostarlo da dove si trovava.
«Magnifico, Grey Five! Ora che hai fatto vedere a questi veri uomini come si fa, penso potremo raggiungerti tutti assieme.»
Mentre i galeotti, non poco umiliati dalla performance di Grey Five, fisicamente inferiore a loro, si preparavano, Cal attivò la linea con la Terra. Il foto-laser permetteva un contatto con pochissimo ritardo, nonostante l’immensa distanza che li separava dal pianeta natale.
«Qui comandante Cal Zhou, a rapporto. Abbiamo attraccato alla Aefestus.»
Passarono circa ottanta secondi, dopodiché giunse la risposta.
«Qui Terra, parla il generale Williamson. Com’è andato il viaggio?»
«Nella norma, generale. Siamo dovuti ricorrere all’attracco manuale, poiché la Aefestus pare del tutto priva di energia.»
«Non è un buon segno. Ottimo lavoro, comandante. Nessun incidente nella manovra? Tutti illesi?»
«Sissignore. Grey Five mi ha aiutato con l’attracco manuale, o allora sì che ci sarebbero stati dei problemi.»
«Eccellente. Situazione?»
«Ci prepariamo a entrare da uno dei boccaporti della stazione. Per l’esattezza,» proseguì Cal mentre usciva nel vuoto, strizzando gli occhi, «il G-22.»
Questa volta il silenzio fu più lungo.
«Sì, eccolo qua. Si tratta di un’uscita secondaria, a scopo manutenzione, ed è collegata col secondo ponte. Da lì si possono raggiungere uno dei magazzini e uno dei polmoni della nave.»
«Bene. Procediamo.»
Lentamente, come dentro l’acqua, i ventuno uomini uscirono dalla nave e procedettero verso il boccaporto, dove Grey Five li attendeva. L’oscurità sopra di loro era in un certo modo terribile, così vuota e infinita, tanto da parere sempre sul punto di inghiottirli irresistibilmente.
Cal si avvicinò al tastierino numerico e lo provò, anche se si aspettava ovviamente che non funzionasse, quindi tentò di ruotare la valvola dell’apertura manuale. Dovette farsi aiutare da altri due uomini, perché il meccanismo faceva resistenza per qualche ragione.
Alla fine riuscirono ad avere la meglio e nel silenzio siderale il tunnel di manutenzione apparve davanti a loro, buio ed immobile.
«Attivate i visori notturni.»
Gli uomini obbedirono e le visiere trasparenti dei loro caschi trasformarono il tunnel in un cilindro verdolino ricolmo di oggetti sospesi a mezz’aria. La gravità era assente anche in quell’ambiente e quando avevano aperto il portellone non vi era stata alcuna fuga di gas.
«Se volete vedere un preciso punto nel dettaglio, utilizzate il faro, altrimenti il visore notturno risulta decisamente più comodo.»
Uno degli uomini provò ad attivare il faro e si guardò attorno, illuminando un rettangolo di paratia vividamente.
«Che merda è questa?»
«Chi ha parlato?»
«Blue Five, comandante.»
«Cosa c’è?»
L’uomo indicò la cornice del portellone e Cal passò a sua volta al faro, illuminandola.
«Ma che…»
Una sostanza viscosa, di un pallido arancione, copriva il meccanismo d’apertura che aveva resistito così tenacemente ai loro sforzi. Alcune goccioline si erano sollevate, probabilmente distaccate dall’apertura del portellone, e galleggiavano pigramente in aria, formando minuscole sfere perfette.
«Non toccate quella roba» ordinò reciso Cal.
Puntò un dito verso la sostanza e il sensore nel guanto della tuta ne eseguì la scansione, spedendone le caratteristiche sulla Terra mentre, contemporaneamente, le elencava nel visore di Cal.
«Secondo l’apparecchiatura è… muffa.»
«Muffa.» ripeterono neutrali alcuni uomini.
«Questo è molto strano…» disse lui tra sé e sé.
«Comandante Zhou. Ci è arrivata una strana scansione dalla sua tuta.»
«Sì, generale. Muffa. È una sostanza viscosa, arancione pallido, che in qualche modo è cresciuta nel meccanismo d’apertura manuale del portello. Non lo trova strano?»
Mentre attendevano la risposta dalla Terra, fece gesto ai suoi uomini di procedere. Il tunnel di manutenzione non era altro che un luogo di rapido passaggio tra diverse sezioni della nave, e per questo era vuoto. Gli oggetti sospesi che avevano notato appena entrati con i visori notturni altro non erano che alcuni attrezzi, tra cui uno svitatore, una saldatrice, alcuni rivetti e un oggetto simile a un telefono che Cal riconobbe come un misuratore atmosferico, un oggettino che segnalava pressione, gravità e gas presenti in un ambiente.
«Molto strano, sì, comandante,» giunse nel frattempo la voce del generale, «non solo a causa dei protocolli d’igiene della Aefestus, ma soprattutto perché senza atmosfera sarebbe dovuta morire.»
«Infatti. Procediamo verso la prima porta sulla destra, quella per il magazzino.»
Afferrò il misuratore atmosferico e lo provò, ma l’apparecchio non reagì. Doveva essersi scaricato, niente di strano.
Procedette verso la porta automatica del magazzino, che naturalmente non si aprì. Siccome Blue Eleven, il nero con cui aveva discusso sulla nave, era il più grosso di tutti, gli aveva affidato la cassetta degli attrezzi. Gli fece cenno e quello gli si avvicinò, tendendogliela.
Le porte delle astronavi erano fatte in modo che il bordo inferiore, quello che scorreva verso l’alto, fosse coperto di una sottile banda magnetica. Cal estrasse un magneto-trattore e lo puntò verso il basso, attivandolo. La porta vibrò e, quando Cal orientò l’apparecchio verso l’alto, scorse con relativa fluidità nelle guide. Data l’assenza di gravità e di energia, non fu necessario puntellarla, poiché rimase in posizione da sé.
«Comandante, siete entrati nel magazzino? Se così fosse, su una delle pareti – quella di fronte alla porta – dovrebbe esserci il pannello per l’elica solare.»
«L’elica solare? Quindi il sole di questo sistema non è di tipo alfa, non emana radiazioni adatte ai pannelli solari. Però io non ho visto nemmeno quelli in posizione, all’esterno.»
Procedettero tra gli scaffali, lentamente. Anche lì era buio e l’atmosfera era assente.
«Cercate per il locale corpi o segni lasciati da attività umana. Per ora non abbiamo altre direttive.»
«Probabilmente non li hanno nemmeno messi in posizione, dato che il sole del sistema è di tipo beta,» gli rispose il generale, «ma è strano che le eliche stesse non siano attive. Questo non sarebbe dovuto accadere. Significa che l’interruzione improvvisa di energia è stata causata dalla mancanza di afflusso della stessa. Rimettendole in posizione, dovrebbero riattivarsi perlomeno le funzioni primarie della stazione, o almeno quelle della sezione in cui vi trovate.»
«Ricevuto, generale. Vedrò di rimettere in posizione le eliche solari, e speriamo che il problema sia tutto lì.»
Mentre gli uomini camminavano pesantemente nella stanza, Cal si diresse al ben visibile pannello di comando, contrassegnato con una saetta. Ai suoi occhi tutto appariva verde, ma quel simbolo era nettamente più chiaro dello sfondo e, quindi, risaltava. Lo aprì e seguì con un dito le file di interruttori, fino ad identificare i quattro della sezione contrassegnati con un pallino circondato da tre stanghette triangolari, inconfondibile stilizzazione di eliche o ventilatori. Li attivò tutti con un unico gesto, tirando su le levette adiacenti con l’indice, ma non accadde alcunché.
«Merda.» imprecò.
Le disattivò e riattivò un paio di volte, sperando assurdamente che ciò servisse a qualcosa, ma ovviamente non fu così.
«Generale, il pannello non risponde. È evidente, come avremmo dovuto immaginare, che le riserve di energia della Aefestus siano state consumate dai sistemi base della stazione nel tempo che abbiamo impiegato a raggiungerla. Per cui non abbiamo la possibilità di attivare le eliche solari.»
Si voltò verso la porta e vi si avviò.
«Soldati, venite con me. Tentiamo la via del polmone. Trovato qualcosa di interessante?»
«No, comandante.»
«Niente.»
«Solo componenti metalliche.»
«Allora andiamo.» disse Cal, uscendo dal magazzino.
«Comandante,» gli giunse la voce del generale, «senza apporto d’energia non sarete in grado di passare da una sezione all’altra della stazione, temo. Le camere hanno porte di sicurezza appositamente per isolare le sezioni, quindi non potrete usare alcun attrezzo per passare. Dovete drizzare le eliche solari manualmente.»
«Generale, se posso permettermi, è una follia. Non ho con me personale addestrato all’evenienza e una passeggiata lungo la fusoliera della Aefestus, col rischio di essere bombardati da corpi vaganti, allo scopo di sollevare un aggeggio alto parecchi metri a mano… è un suicidio.»
Puntò il magneto-trattore contro la porta del polmone e la aprì. All’interno di quella sala, anch’essa dalla volta cilindrica – poiché le sezioni della stazione altro non erano che cilindri collegati tra loro da sfere – parte del soffitto era trasparente, in modo da permettere ai raggi solari di penetrarvi. Le paratie scorrevoli di quella sala erano però chiuse e la serra, che occupava gran parte dell’ambiente, era colma di piante avvizzite e morte. Anche lì non vi era presenza umana, né viva né morta, e tutto era immobile, buio e silenzioso.
«Comandante Zhou, le uniche scelte che avete sono o attivare le eliche solari manualmente o fare comunque una passeggiata nel vuoto ogni volta che vorrete cambiare sezione, passando da un portello all’altro. A voi la scelta.»
Cal digrignò i denti e non rispose. Cominciava a sentire un bruciore sordo alla bocca dello stomaco e rimpianse di aver lasciato i nanobot gastrici a casa.
Alcune foglie fluttuavano lentamente nell’ambiente e Cal poté notare facilmente una falla nella divisione tra la stanza e la serra, circa un metro sopra la sua testa. Non era niente più che una crepa lunga una braccio e larga forse due dita, ma di certo un danno sufficiente a rendere inutile la separazione tra i due ambienti.
«Guarda lì» esclamò uno degli uomini e Cal si diresse da quella parte, dove già due o tre di loro scrutavano intenti dentro la serra.
«Oh cazzo…»
«Comandante, cos’è?»
In mezzo alla moltitudine di piante morte e scure un vivido fungo arancione – o almeno pareva un fungo – palpitava leggermente. Sottili filamenti della materia che aveva bloccato il portello se ne distaccavano, strisciando nell’aria e dirigendosi in direzioni casuali, senza tuttavia aderire a qualcosa in particolare.
«Cos’è quella roba là sotto?»
«Un tronco umano,» disse con voce neutrale Red Seven, gli occhietti scintillanti nel testone a lattina.
Il fungo cresceva effettivamente nello squarcio nel costato di un tronco umano, i cui arti e testa erano mancanti.
«Ah, merda.»
«Che roba sarebbe quella?»
«Generale,» disse Cal tentando di dominare malamente il tremito alla voce, «abbiamo un problema.»
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 6“]I l nome dell’azienda che aveva mandato i tre uomini al laboratorio di Eijiro era “Humanufacture”. Lo scienziato non ne aveva mai sentito parlare e l’edificio in cui si apprestava a entrare era, in effetti, anonimo e di piccole dimensioni, con una serie di finestre blindate grandi come piatti da portata come unica interruzione in pareti di plastocemento gialline e lisce. Un digi-campanello recava la minuscola scritta “Humanufacture”, il solo luogo dove il nome apparisse, e la porta era a scomparsa, apparentemente parte del muro.
La ragazza di nome Ai si tolse il cappuccio in-out, che permetteva di vedere comodamente all’esterno ma impediva a chi fosse stato fuori di scorgere il volto di chi lo portava, sfilò un guanto e premette il pollice sul digi-campanello, che si illuminò immediatamente di verde. La parete scricchiolò lievemente e aprendosi a iride rivelò loro un corridoio d’accesso.
«Prego, professore, dopo di lei.»
Eijiro adocchiò la ragazza orientale, probabilmente non più che ventenne, dai capelli biondi e gli occhi verdi. Lui era un conservatore, che riteneva le modifiche fisiche fossero una bestemmia, ma si tenne i commenti per sé e obbedì.
Non appena i tre furono entrati dietro di lui la porta si chiuse con un sibilo e si accesero delle luci ambientali, apparentemente provenienti dalle pareti stesse. Eijiro, momentaneamente dimentico della situazione, passò una mano sul muro traslucido e luminoso con un’espressione di stupore sul volto.
«Cos’è?»
«Il risultato degli studi di uno dei nostri associati. Non è ancora stato commercializzato, ma presto lo lanceremo sul mercato.»
«A cosa è alimentato?»
«Luce ambientale ed energia motoria. Basta la scarsa luminosità di una giornata nuvolosa per mantenerlo carico e camminando, sedendosi e alzandosi dalle sedie, spostando oggetti e così via si fa altrettanto. Porterà risparmi rilevanti sulle bollette della corrente.»
«Tutti i precedenti esperimenti sull’energia motoria sono falliti. Vanno bene solamente per piccoli oggetti come orologi e telefoni, ma nemmeno l’illuminazione stradale riusciva a cavare sufficiente energia dal moto dei passanti per rimanere accesa tutta la notte.» obbiettò Eijiro con tono scettico.
«Questo nuovo modello richiede il sessantaquattro percento di energia in meno e si appoggia anche alla luce ambientale, come ho detto. Inoltre riesce a ricavare energia anche dai più piccoli movimenti, persino dall’assestamento dell’edificio, dalla pressione del vento al suo esterno e riesce addirittura a sfruttare la cinetica della pioggia.»
«Ammirevole…» ammise lo scienziato.
La ragazza gli sorrise e gli fece cenno di entrare in una porta a scorrimento. Dietro a essa una sala riunioni dall’aria comoda li accolse, con pareti olografiche in stile casa coloniale, mobili di legno e poltrone di velluto rosso. Un uomo e una donna stavano parlottando seduti l’uno di fronte all’altra, con in mano bicchieri colmi di liquido smeraldino.
«Professor Eijiro!» esclamò la donna scorgendolo. Profonde fossette apparvero ai lati del sorriso e lo scienziato si rese conto di essere davanti a una naturale, con i capelli rosso rame, gli occhi azzurri e il volto tempestato di efelidi. Mentre le stringeva la mano tesa Eijiro pensò che i naturali, ovvero coloro con tratti europei non alterati considerati universalmente belli, erano meno dell’otto percento della popolazione mondiale. Il binomio capelli rossi e occhi azzurri doveva ammontare a meno dello zero virgola due, una vera rarità.
«Io sono Vera Gibson,» si presentò lei, «come si sente?»
«Un po’ frastornato,» ammise sinceramente lui, «ma incolume. Anche se la distruzione del mio laboratorio non mi fa propriamente piacere.»
«Lo immagino bene, ma dati gli accadimenti poteva andare decisamente peggio di così.»
«Sì.» ammise lui.
L’uomo si era a sua volta alzato, sovrastandoli con una statura e una corporatura notevoli. Aveva penetranti occhi azzurri, dalle palpebre un po’ pesanti, naso affilato e radi capelli biondi, che gli conferivano un aspetto alquanto malevolo. Era anche lui un naturale, di evidenti origini slave.
«Io sono Boris Asimov,» si presentò con una voce gentile che contrastava stranamente col suo aspetto.
«Bene, a cosa devo questo… invito?»
Vera, sempre sorridendo, fece gesto alla ragazza e ai due uomini di lasciare la stanza, quindi invitò Eijiro ad accomodarsi su di una poltrona.
«Gradisce un emerald rain?»
«No, grazie. Preferisco sapere cosa sta accadendo.»
«Benissimo. Mi sembra legittimo.»
Vera posò il suo bicchiere su un basso tavolino di legno scuro e accavallò le gambe, unendo le punta delle dita in atteggiamento riflessivo.
«Professore, noi siamo i fondatori dell’azienda che ha sede in questo edificio. La Humanufacture. Lo so, non faccia quella faccia, l’aspetto è tutt’altro che attraente, almeno quello esterno. Ma lasci che le assicuri che è voluto. Non amiamo dare nell’occhio.»
Sorrise e Boris la imitò.
«Sono già diversi anni che siamo in attività, professore,» continuò quindi lui, «ma non abbiamo lanciato sul mercato nemmeno una delle numerose innovazioni che abbiamo sviluppato nei nostri laboratori. Le ragioni sono molteplici, come penso potrà immaginare. Innanzitutto il timore di intrusioni o sabotaggi da certe aziende di nostra conoscenza. In secondo luogo perché abbiamo intenzione di invadere il mercato con prodotti che lo coprano a trecentosessanta gradi contemporaneamente. Sarà un tale colpo di mano da impedire qualsiasi reazione dai nostri feroci concorrenti, perché la qualità e il prezzo e la novità saranno tali da renderli incapaci, almeno per qualche tempo, di reagire efficacemente. Oh, sì, potranno anche riuscire a bloccare qualche prodotto qua e là, a chiudere qualche negozio, a intercettare qualche corriere. Ma non tutti, decisamente no. E la Humanufacture balzerà da nulla sconosciuto a tutti a celebrità interplanetaria. Con conseguenti guadagni sia in termini di prestigio che economici.»
«Ciò che mi dite è molto interessante. Ma perché, mi chiedo, mi rivelate queste cose?»
«Perché lei, professore, è il roboticista più noto del globo. E anche quello le cui geniali invenzioni sono state meno fruttuose… almeno per il creatore.»
Eijiro non tradì alcuna emozione a quelle parole.
«Noi sappiamo, come sa la Triple W, della sua ultima invenzione. Dell’androide di nuova generazione, se vogliamo chiamarlo così. Ma, al contrario della Triple W, noi siamo interessati ad acquistarne i diritti, pagandoglieli a peso d’oro, e a mantenerla alle nostre dipendenze o come socio nei nostri laboratori per controllarne la produzione e continuare i suoi studi ed esperimenti.»
Eijiro si morse l’interno della bocca. La proposta era davvero allettante. Dopo una vita di deludenti successi e fondi mai sufficienti per sviluppare davvero ciò che aveva in mente, quella pareva un’occasione d’oro, irripetibile.
«Mi sembra che la vostra sede sia un po’… piccola. E poi, come avete finanziato per tutti questi anni il numero di prodotti di cui mi avete parlato?»
«Oh, ho avuto una cospicua eredità da mio zio. Ha mai sentito parlare di Ted Bear?»
«No.»
«Non mi stupisce. Non trova molto tempo da dedicare alla lettura, vero?»
«Decisamente no.»
«Era un noto scrittore di fantascienza. Pensi che anche tra i suoi antenati ci fu, più di mille anni fa, un Bear autore del medesimo genere. Fatto sta che mio zio morì alcuni anni or sono e mi lasciò una cospicua somma in eredità. Essendo io una cardio-chirurga, avevo il mio bel gruzzoletto da parte a cui sommarla.»
«Per quanto mi riguarda,» disse laconico Boris, «ho inventato la pistola a percussione fonica.»
Eijiro lo guardò con tanto d’occhi.
«Ma non è stata prodotta dalla Triple W? Come ne ha cavato soldi, da quegli sciacalli?»
«Ci sono diverse ragioni. Innanzitutto, le armi suscitano anche l’interesse delle forze armate. Al contrario del suo frammentatore particellare, professore, la pistola a percussione fonica non ha un elevato costo di produzione. Pertanto ne sono stati costruiti moltissimi modelli. Inoltre,» ammise con voce triste, «l’amara verità è che la maggior parte dei miei introiti provengono dalla quota societaria che ho con Ben Wu.»
«Il chirurgo estetico?»
«Già. Adesso ha un sacco di soldi, ma quando alcuni anni fa venne da me e un mio amico a chiederci un finanziamento per le sue idee era solo un ragazzotto povero e figlio di nessuno. Ora fattura alcuni miliardi di crediti l’anno e io e Vanja siamo soci al cinquantadue per cento – ventisei a testa – della New Fashion Cast.»
«Finanziare la scienza con moda assurda. Che ironia.»
Eijiro, suo malgrado, sorrise.
«A ogni modo, professor Eijiro, lei ha visto l’anonima facciata della nostra azienda. L’aspetto che la Triple W e le sue associate devono vedere. Ma abbiamo cose molto più interessanti, di sotto.»
«Di sotto?»
Vera indicò col pollice il pavimento e strizzò l’occhio.
«Le piacerebbe vedere i laboratori della Humanufacture?»

 

Umani

 

I ventidue membri della spedizione sulla Aefestus tornarono di corsa sulla propria nave, almeno in termini figurati. Si limitarono infatti ad avanzare con pesantezza, le scarpe magnetiche come piombi ai piedi, sino a che non furono tutti al sicuro nella sfera bianca con cui erano giunti; ma in cuor loro avevano una decisa urgenza.
C’era qualcosa, sulla stazione spaziale. Qualcosa che non conoscevano. La cosa più terrificante nella storia dell’umanità era sempre stata quella: l’ignoto.
«Comandante Zhou!» sbraitò per l’ennesima volta il generale Williamson attraverso il collegamento foto-laser, «Pretendo un immediato aggiornamento!»
Cal, che si era tolto la tuta al pari dei suoi uomini, attivò a malincuore il comunicatore.
«Non c’è molto altro da aggiungere, signore. Nel polmone della sezione abbiamo trovato un tronco umano privo di arti e testa, dal cui petto squarciato cresceva una forma di vita probabilmente aliena, simile a un fungo arancione. Questa… muffa, come l’ha classificata l’analizzatore, rilasciava filamenti che galleggiavano per il locale, i quali posso presumere essere niente più che gruppi di spore. Ma di certo non è stato un fungo alieno a fare a pezzi quell’uomo e a mettere fuori uso la Aefestus. Signore.»
Si voltò verso il suo equipaggio. Quelli erano individui abituati a ben peggio di un tronco monco, ma non era quello il problema, bensì la loro fantasia galoppante sull’autore dello spettacolo cui avevano assistito. Lui stesso, per quanto marine addestrato, non poteva fare a meno di pensare a mostri orrendi e zannuti e altre simili assurde bestialità. Di certo, se i karankatul erano coinvolti in quella faccenda, stavano sperimentando qualcosa di diverso da quanto lui avesse mai visto in quegli anni di guerra contro di essi.
«Per quanto mi riguarda, su quella nave potrebbe esserci Jack lo Squartatore con tutte le generazioni successive sino a oggi! Voi siete lì per fare un lavoro – e per Dio! – lo farete!»
Cal ringraziò che il parlottare affatto sommesso dell’equipaggio stesse coprendo il rumore dei suoi denti che fregavano con forza gli uni contro gli altri, scricchiolando e gemendo. Una palpebra prese a tremargli e vi passò su un dito, ma essa non cessò il suo moto involontario.
«S-sissignore.»
Si voltò verso gli uomini, riuscendo a imporre il silenzio senza doverlo richiedere. In quel momento vulnerabile, quei galeotti identificavano in lui la massima autorità, colui che doveva per forza avere la situazione ben salda nelle proprie mani.
«Dato che di tornare sulla Terra non se ne parla, vediamo di far fruttare il nostro tempo quassù. Se vogliamo avere uno straccio di luce, di aria, di gravità e così via dobbiamo fare sì che la Aefestus riceva energia. Per fare ciò, dobbiamo drizzare manualmente le eliche solari. Non c’è altro da fare.»
Un mugghio di scontento si levò dall’equipaggio, ma Cal continuò imperterrito a parlare.
«Ci divideremo in cinque squadre. Quattro di esse conteranno cinque elementi e usciranno sullo scafo della stazione, dirette alle eliche solari più vicine. L’ultima, di due persone, rimarrà qua sull’astronave, pronta a uscire rapidamente in caso di necessità.»
«Io là fuori non ci vado!» squittì un omuncolo pelle e ossa dalla faccia cattiva.
Cal lo guardò, glaciale.
«Preferisci tornare nella tua comoda cella, dove scontare il resto della tua vita, o tentare almeno di guadagnarti una fetta di libertà?»
«Meglio in gabbia e vivo!» sputò l’uomo.
«Il tuo nome?»
«Blue Six.»
«Bene, Blue Six, vedila così. La Triple W ha investito dei soldi su di te. Tu credi che, tornando sulla Terra senza nulla aver fatto, ti lasceranno semplicemente in pace? Non credi che qualcuno, in galera, potrebbe ricevere qualcosa in cambio di un servizietto privato per te solo? Che ne dici?»
L’omuncolo strizzò gli occhi in un’espressione di contrarietà, aggrottando il volto così da renderlo ancor più brutto e cattivo del normale.
«La prima squadra sarà composta da me, Grey Five, Red Two, Red Seven e Blue Eleven.»
Non aveva scelto quei quattro compagni per una ragione particolare, se non per il fatto di aver parlato esclusivamente con loro a tu per tu e di trovare i loro volti più familiari degli altri. Procedette quindi a formare le altre squadre, stando ben attendo a lasciare Blue Six sull’astronave, in quanto non si fidava del fatto che facesse parte di un gruppo di lavoro.
«Molto bene. Ora usciremo sullo scafo. Ci dirigeremo in quattro differenti direzioni. Rimarremo in contatto radio, quindi sarò io a darvi le indicazioni su come trovare le eliche solari.»
Una volta nuovamente nello spazio, l’unico suono che i diciannove soldati sentirono fu la voce ininterrotta di Cal che li guidava, come avesse avuto occhi ovunque, tra fari, portelli, antenne, ganci di sostegno e spezza-meteore, simili a cannoni grandi quanto utilitarie che avrebbero dovuto eliminare automaticamente i corpi vaganti superiori a una certa dimensione. A causa della mancanza di energia essi erano, ovviamente, inattivi da tempo, e lo scafo e ciò che vi si trovava sopra mostravano una moltitudine di segni e spaccature causate da rocce spaziali di varie dimensioni che vi avevano urtato contro.
Lui e il suo gruppo furono, ovviamente, i primi a trovare una delle eliche solari. Si trattava di un’asta lunga pressappoco quattro metri e spessa forse tre centimetri di diametro, incastrata nella fusoliera della stazione e tenuta al suo posto da una serie di ganci. In teoria quest’ultimi si sarebbe dovuti sganciare quando aveva attivato il pannello nel magazzino, ma ovviamente l’assenza di energia lo rendeva impossibile. Avrebbero dovuto staccarli uno ad uno – in quel momento terminò di contarli e si avvide che erano una dozzina – spaccandoli, poiché non era previsto l’intervento manuale.
Servendosi degli attrezzi portati da Blue Eleven, Cal cominciò il suo lavoro, affiancato dagli altri con strumenti simili, mentre via radio continuava a impartire istruzioni alle altre tre squadre.
Quando finalmente anche il dodicesimo gancio si fu spezzato, due squadre su tre avevano trovato le loro eliche solari e avevano cominciato il lavoro. A quel punto Cal, aiutato dagli altri, afferrò la lunga asta e cominciò a tirarla, costringendola ad alzarsi contrastando il meccanismo immobile su cui poggiava.
«Mi raccomando, tenetevi ben stretti!»
Con uno scatto l’elica si drizzò in tutta la sua altezza e sia Red Two che Red Seven si staccarono da terra nell’impeto, rimanendo però saldamente aggrappati per le mani.
«Bene ragazzi! Scendete, su, e godetevi il frutto del vostro lavoro.»
Alzarono tutti e cinque lo sguardo verso la sfera in cima all’asta che, stimolata dal vento solare, si srotolò rapida in una serie di tre pale simili a piccole vele triangolari, che cominciarono a roteare rapide sul proprio asse.
«Naturalmente un’unica elica non è affatto sufficiente, ma con le altre tre in posizione dovremmo perlomeno riuscire a dare energia a questa sezione della stazione. Una volta fatto questo, sarà più facile dirottarla in modo da passare da una parte all’altra senza eccessivi problemi.»
Si avviarono verso la nave, mentre via radio la seconda e la terza elica venivano a loro volta attivate e la quarta era a buon punto per essere liberata.

 

Umani

 

L’accesso ai piani inferiori della Humanufacture, al pari dell’esterno dell’edificio, era camuffato. Un ascensore era nascosto dietro un mobile impolverato in una stanza piena di cianfrusaglie, che a un occhio esterno sarebbe potuta apparire come lo sgabuzzino di un accumulatore compulsivo. Ma quando finalmente si raggiungevano i dieci metri di profondità, tutto cambiava.
L’azienda era stata costruita sopra quello che, un tempo, era stato un ampio parcheggio sotterraneo, composto da ben dodici livelli circolari capaci di accogliere oltre trecento mezzi l’uno. Eijiro non poté fare a meno di pensare a dei gironi infernali mentre le porte si aprivano e lui, Boris e Vera accedevano a un unico, gigantesco ambiente trasformato in laboratorio. Diversi scienziati lavoravano ai tavoli o ai terminali e alcuni automi domestici si muovevano rapidi e silenziosi per la sala, portando componenti e gettando scarti di lavorazione.
«In questo piano ci occupiamo della realizzazione dei singoli componenti che andranno a quelli inferiori, dove saranno assemblati. Su dodici livelli, nove sono laboratori e tre sono magazzini. Senza contare noi due e i ragazzi che sono venuti a prenderla, contiamo centottanta dipendenti. Quasi tutti fisici, meccanici, biologici, chimici, roboticisti e così via.»
«I tre che mi hanno prelevato non sono scienziati.»
«No, sono persone fidate cui affidiamo commissioni in cui non possiamo mettere la faccia senza rischiare di essere notati.»
«Dei mercenari, insomma.»
Boris rise, dando una pacca amichevole sulla schiena a Eijiro, che sentì una vertebra scricchiolare.
«Ma no, ma no, sono solo dei corrieri, alla fin fine. Parlano con persone, acquistano cose, raccolgono informazioni. Non uccidono, non rubano, non spiano e non rapiscono.»
«Ma sono armati.»
L’omone fece spallucce, senza che il sorriso abbandonasse il suo volto stranamente minaccioso.
«Non si sa mai, là fuori. A dirla tutta, non sono armi letali, solo dissuasori. Mi risulta che in tutta questa vicenda l’unico ad aver seccato qualcuno sia lei.»
Gli puntò contro un indice grosso come un salsiccia e mimò il gesto di far fuoco con una pistola.
Eijiro borbottò qualcosa, ma si astenne dal ribattere.
Vera e Boris lo accompagnarono a visitare alcuni laboratori e lui fece molte domande, ricevendo sempre risposte precise e soddisfacenti.
«Vedo che non siete specializzati in un singolo campo.»
«Come le abbiamo spiegato prima, siamo interessati a coprire il maggior numero di settori possibili. Potrebbe essere l’unico modo in cui riusciremo a resistere alla Triple W, una volta rivelatici al mondo.»
Eijiro annuì. L’idea gli sembrava valida e, a voler essere sinceri, nulla di ciò che aveva visto l’aveva deluso. Gli scienziati che lavoravano in quella struttura erano professionisti seri e aveva visto più di uno schema o un prototipo interessante.
«Cos’è questo?» chiese allungando una mano verso una calotta semisferica di colore brunito.
«Io non la toccherei fossi in lei, professore.»
Eijiro ritirò rapidamente la mano.
«Si tratta di un’arma studiata per la guerra contro i karankatul. Ma sarà meglio che glielo faccia spiegare da chi l’ha creata.»
Fece un gesto verso un uomo.
«Ehi, Rob!»
Un uomo gracile, alto e magro come un chiodo, fortemente stempiato e con gli occhi straordinariamente ingranditi da un paio di occhiali-lente trotterellò verso di loro con un sorriso.
«Questo è il professor Shimizu. Lui è Robin Wells, dottore.»
I due uomini si strinsero la mano.
«Shimizu? Eijiro Shimizu?»
«Sono io.»
«Oh, è un grande onore, signore.»
Eijiro si trattenne dal sorridere e indicò l’oggetto che aveva notato, apparentemente un fermaporta di cattivo gusto.
«Oh, questa. L’ho chiamata calotta a detonazione. Serve per combattere i karankatul.»
«Come funziona?»
Robin si spinse gli occhiali-lente sul naso e parve accorgersi solo in quel momento di averli ancora indosso. Con un sorriso imbarazzato se li tolse ed Eijiro pensò che, per contrasto, il suo volto e i suoi occhi apparivano più piccoli del normale.
«Come tutti sanno, il problema principale nell’affrontare un karankatul a distanza ravvicinata è il suo carapace. Molto resistente. I proiettili ordinari non lo penetrano e i percussori fonici non sembrano infastidirli. Ma dato che non si può permetter loro di avvicinarsi abbastanza da tramutare lo scontro in un corpo a corpo – letale per l’uomo – ho pensato di creare un apriscatole a distanza.»
Robin afferrò con cautela la calotta e la sollevò, mostrando alcuni uncini scintillanti sotto ad essa.
«Sul lato opposto c’è un reattore a scoppio con cento metri circa di autonomia. All’interno, uno stabilizzatore la mantiene nella posizione in cui è stata rilasciata. Schizza a quasi duecento chilometri orari contro il bersaglio, vi si arpiona ed esplode. Piccola, controllata, come esplosione. Probabilmente non sufficiente da uccidere un karankatul, ma se fosse più potente rischierebbe di ferire anche i nostri soldati che si trovassero nelle vicinanze. La cosa importante è che scoperchia il carapace, creando un varco di circa un metro di diametro. A quel punto, il bersaglio è vulnerabile alle armi convenzionali.»
Sorrise, posando la calotta.
«Come dicevo, non è altro che un apriscatole. Non è ancora in commercio, ma ritengo che quando lo sarà andrà a ruba. Gli abbordaggi sulle navi aliene sono sempre una carneficina, per i nostri soldati.»
Eijiro annuì, ringraziò lo scienziato e si allontanò con Boris e Vera.
«Allora, professore, che ne dice di diventare parte della nostra piccola famiglia?»
«Cosa comporterebbe ciò?»
«Nessuno stipendio fisso. Solamente una percentuale sulle vendite dei suoi lavori. Vitto, alloggio e tutto il materiale di cui necessiterà sono compresi, quindi tutto ciò che guadagnerà lo terrà per sé, cosa ne farà sono esclusivamente affari suoi. Una sezione di uno dei laboratori a sua disposizione, un automa di servizio esclusivamente di sua proprietà, un appartamento nei livelli laterali – creati apposta per ricavarne zone abitative – e, ovviamente, la paternità di tutto ciò che creerà. Due sole cose chiediamo, in cambio: l’esclusiva con la Humanufacture e la promessa che, fino a che non ci riveleremo come le abbiamo spiegato, non uscirà da questa struttura. Non possiamo rischiare di essere notati proprio ora che manca così poco.»
«Tra quanto pensate di lanciare l’azienda?»
«Un mese, forse due. Oramai i tempi sono maturi.»
Eijiro pensò di chiedere un po’ di tempo per ragionarci. Poi pensò agli anni di delusioni, ai furti che aveva subìto, ai maltrattamenti delle aziende per cui aveva lavorato, al non riconoscimento dei propri meriti, al conto in banca a due cifre, alla violenza di coloro cui aveva rifiutato la collaborazione. Decise che non c’era da pensarci.
«Ci sto.»
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 7“]La sezione cui avevano attraccato vibrò, le luci lampeggiarono brevemente e poi si accesero stabilmente. Il sistema automatico di riparazione entrò in funzione, tappando alcune decine di falle microscopiche causate dai corpi vaganti, mentre gli spacca meteore cominciavano a roteare su loro stessi alla ricerca di bersagli e il radiofaro si illuminava. Dalle griglie d’aerazione fuoriuscirono sbuffi di polvere e l’aria cominciò a riempire nuovamente l’ambiente, mentre la gravità veniva stabilizzata dalla rotazione della sezione stessa.
Cal e i suoi compagni, seguiti dalle altre tre squadre, rientrarono nella navetta.
«Generale, abbiamo ripristinato l’energia in questa sezione. Qual è il piano?»
Trascorsero quasi tre minuti prima che giungesse una risposta, durante i quali Cal e i suoi uomini tornarono nella stanza delle serre. Lo strano fungo era ancora lì, ma aveva cessato di produrre i filamenti di spore e palpitava in maniera irregolare. Si era afflosciato su se stesso e assomigliava a un palloncino sgonfio.
«É necessario che raggiungiate la sala di comando, dove si trova la memoria centrale della stazione. Una volta che vi sarete collegati a essa, scopriremo cosa diavolo è accaduto lassù.»
«Sarebbe un inizio. Ci vorrà un po’, la sala di comando è lontana da questa sezione e di passare dall’esterno non se ne parla, a meno che non vogliate che ci suicidiamo tutti.»
Mentre parlava scattò una fotografia del fungo, che viaggiò con le sue parole fino al terminale sulla terra.
«Vedo che questa roba soffre, in presenza di atmosfera,» aggiunse, «il che suggerisce che il suo ciclo vitale avvenga nel vuoto. Da un punto di vista scientifico si tratta di una scoperta straordinaria. Non si era mai vista una forma di vita capace di sopravvivere, svilupparsi e riprodursi nello spazio. I cervelloni a terra andranno in brodo di giuggiole, per questo.»
Si rivolse agli uomini, che bighellonavano curiosando per la sezione della stazione, tenendosi ben distanti dal fungo morente. Non sapendo di cosa si trattasse, l’insopprimibile istinto di sopravvivenza suggeriva loro di starne lontano. D’altra parte non era da escludersi che potesse essere tossico.
«Ascoltatemi bene! Abbiamo parecchia strada da fare, dobbiamo raggiungere la sala di comando, che si trova al centro della Aefestus. Questo significa che dovremo attraversare una decina di sezioni e dovremo ripristinare l’energia in ognuna di esse. Non fate quelle facce,» continuò con un sorriso, «ora sarà sufficiente usare i pannelli di controllo. L’energia c’è, non sarà più necessario uscire nel vuoto.»
Il sollievo fu evidente tra gli uomini e Cal cominciò a rilassarsi. Tutto sommato, non stava andando così male.
«I cervelloni avranno l’immagine e le registrazioni tra breve, comandante. Quanto a voi, mi aspetto che nelle prossime cinque ore raggiungiate la sala di comando.»
«Sissignore.»
Cal si diresse verso il portellone di passaggio, il cui pannello d’attivazione era finalmente acceso. Si trattava di una porta circolare, a tenuta stagna, spessa oltre dieci centimetri e priva di qualsivoglia maniglia, leva o serratura. L’unico modo per aprirla era col suo pannello, che richiedeva tre volte l’autorizzazione. Oltre a esso, una sala perfettamente circolare e priva di gravità collegava la sezione a un determinato numero di altre, che essendo cilindriche ruotavano su loro stesse per creare la gravità artificiale.
«Comandante, comandante!»
Non era la voce del generale. Per un momento Cal non la riconobbe, ma poi si ricordò dei due che aveva lasciato sulla navetta. Quello che stava parlando era il piccoletto nevrotico che aveva appositamente lasciato fuori dalle squadre.
«Cosa c’è, Blue Six?»
«Qui s’è acceso un allarme e le spie lampeggiano da pazzi!»
«Calma, calma. Dimmi esattamente cosa appare sul video del terminale.»
«Dice… ufo-r.»
Oggetto non identificato rilevato. Forse un corpo celeste più grande della media.
«Ok, fai come ti dico. Scorri con il dito sullo schermo, così che ti appaia il menu relativo all’allarme.»
«Fatto.»
«Ora seleziona il simbolo circolare con una crocetta dentro.»
«Mmm… ok, trovato.»
«Cosa appare?»
«Una sagoma dalla forma strana.»
«Il terminale sta calcolando?»
«Non lo so.»
«C’è un barra di caricamento?»
«Non la vedo. Ah, sì, eccola. Novantaquattro percento. Ha finito. Dice kc-c3.»
Cal sentì il cuore saltargli un battito. Provò una sensazione di vertigini e la vista gli si annebbiò per un istante.
«Comandante? Comandante!»
Cal si riscosse, anche se i denti avevano ripreso a battergli e sentiva il sangue defluirgli dal volto.
«Generale. Un esploratore karankatul è entrato nei nostri schermi.»

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Aleani

 

Grandi forze si scontravano tra le pieghe della realtà. Da molti cicli, oramai – Tül e Dlhthn erano sorte e calate oltre tremilaquattrocento volte – gli umidi e quelli che ridono si scontravano sulla polvere galattica che altro non era se non altri mondi, abitati e abitabili o meno. Ma essi erano rimasti lontani dal popolo azzurro ed esso, com’era sua abitudine da millenni, si era tenuto discosto dagli altrui scontri. Molti erano sorti e altrettanti erano caduti, ma il popolo azzurro era ancora lì. Questo non era certamente un caso.
Sì, gli umidi sapevano della loro esistenza, ma la loro totale incapacità di scindere il materiale dall’immateriale, il terreno dall’aereo, il palpabile dall’impalpabile aveva causato la loro sconfitta ancora prima di un vero scontro. Nessuno di loro era mai riuscito nemmeno ad avvicinarsi al popolo azzurro e, dato che parevano possedere solamente intenzioni ostili e non sembrava avessero alcuna nozione di termini come “pace” o “diplomazia”, così avrebbe continuato a essere.
Ma qualcosa stava cambiando. Qualcosa di antico, che assieme ai nebulosi e agli esseri di roccia pensavano fosse estinto per sempre, si era avvicinato a loro.
Il concetto di vicinanza era estremamente soggettivo, nell’universo, e per il popolo azzurro esso si traduceva in parecchi anni luce da dove si trovava il suo pianeta madre. Quella cosa – quell’entità – aveva solo sfiorato il loro sistema solare, ma le sentinelle l’avevano avvertita. Non sapevano se li avesse ignorati o semplicemente non si fosse resa conto della loro presenza, ma questo poco importava… i millefacce erano tornati.
Andrtül, il cui nome significava “nata alla luce di Tül”, scivolò tra le grandi radici dell’albero rosso e l’energia delle sue foglie pallide la solleticò, facendola fremere. Ma non aveva tempo per abbandonarsi ai piaceri, era attesa. Trovò la strada di metallo e vi confluì, come elettricità, arrivando in meno di un istante all’altro capo di essa, dove altri del popolo azzurro restavano in attesa. Si erano già messi in cerchio, ma ancora non si toccavano, perché alcuni erano assenti.
Andrtül sorrise dentro di sé, vedendo il vago lucore rosato di una sua amica, che tentava di nasconderlo opacizzando malamente la propria superficie. Era un sentimento troppo intenso per riuscire a celarlo e lei, che era alla sua prima volta, provava un pudore eccessivo e immotivato che avrebbe perso col tempo. Presto avrebbe generato un nuovo essere, che sarebbe volato via sui venti magnetici del pianeta, nutrendosi dell’energia che la terra stessa e ogni forma di vita che l’abitava spandevano per l’aria semplicemente esistendo. Una volta sufficientemente forte e cosciente di sé, sarebbe lentamente calato sul mondo e avrebbe cominciato la propria esistenza come membro del popolo azzurro.
Finalmente anche gli ultimi giunsero e Andrtül si tese a destra e a sinistra, allacciandosi ai suoi vicini. L’energia dei loro corpi li attraversò circolarmente, senza riuscire a fuggire, ma costretta a scorrere interminabilmente fino a che essi non si fossero nuovamente divisi. A quel punto, le loro coscienze furono una e il dibattito cominciò.
«Gli umidi quelli che ridono i millefacce sono troppi per uno scontro che alla fine non coinvolga anche noi tutti…
ma noi possiamo tenerli lontani come sempre abbiamo fatto senza nemmeno possedere le armi e le macchine mostruose che essi costruiscono…
è facile escludere una singola mente o un gruppo ma i millefacce sono innumerevoli e hanno poche potenti menti che possono resisterci…
come si salvò il popolo azzurro sessantatremila cicli fa lo sappiamo bene ma c’erano anche i nebulosi che li combattevano e alla fine si sterminarono a vicenda…
ma i nebulosi soccombettero mentre i millefacce a quanto sembra sopravvissero in qualche modo…
bestie terrificanti…
striscianti e volanti e che corrono saltano mordono dilaniano bruciano e divorano…
ma ci ha solamente sfiorati forse non si è accorta di noi l’entità che le sentinelle hanno avvertito…
si dirigevano verso i campi di battaglia degli umidi e di quelli che ridono forse si distruggeranno a vicenda come accadde molto tempo fa…
non possiamo rifugiarci in una speranza dobbiamo in qualche modo essere preparati all’eventualità che i millefacce tornino e prima o poi tentino di conquistare anche il nostro sistema…»
Il dialogo, già di per sé lungo, era fino a quel momento avvenuto in meno di tre secondi, come un fluire ininterrotto di pensieri che non necessitino di pause per essere compresi da tutti. In pochi minuti milioni e milioni di osservazioni sarebbero state fatte e alla fine sarebbe stata presa una decisione, seppur sofferta. Per il popolo azzurro, la guerra era una novità.

 

Umani

 

L’esploratore karankatul appariva come un paio di piatti esagonali sovrapposti specularmente, che andavano a formare una struttura di cui era impossibile comprendere quale fosse il sopra o il sotto, il davanti o il dietro. Avanzava roteando su se stesso in modo da creare una gravità artificiale paragonabile a quella del pianeta natale degli alieni – che gli scienziati, analizzando i pochi cadaveri karankatul a loro disposizione, avevano stimato essere quasi la metà di quella terrestre – e si stava avvicinando alla Aefestus dal lato del pianeta, seguendone la rotta ma rimanendovi affiancata. Quando la sua velocità fu pari a quella della stazione spaziale parve fermarsi, ma solamente dal punto di vista di chi si trovava a bordo di essa, e se ne staccò un oggetto simile a un fagiolo, che si avvicinò rapido alla Aefestus.
Tutto questo era accaduto in meno di due minuti e Cal e i suoi uomini si trovavano ancora nella sezione riattivata, ciechi a ciò che accadeva al di fuori di essa. Ma il comandante sapeva perfettamente come stessero andando le cose, perché i karankatul si comportavano sempre allo stesso modo. Quando identificavano qualcosa di non apertamente ostile ma che riconoscevano come appartenente al nemico lo accostavano e mandavano una capsula con due soldati a bordo a controllare, quindi decidevano di conseguenza. Uno dei loro pochi punti deboli era la prevedibilità, attraverso la cui breccia Cal si era spesso infilato per batterli.
«Ascoltatemi bene!» urlò con voce che si augurò non tremasse troppo, «Stiamo per essere abbordati da una capsula con due karankatul!»
Il panico era palpabile ma gli uomini, anziché agitarsi e cominciare a correre da tutte le parti, in un’irrazionale tentativo di fuga nello spazio, rimasero gelati là dov’erano. Cal fu in un certo modo orgoglioso di loro, per questo.
«Ci sono alcune cose che dovete assolutamente sapere! Primo: non potete prenderli alle spalle! Hanno una visuale che, se non è a trecentosessanta gradi, vi si avvicina molto. Secondo: mai affrontare in un corpo a corpo un karankatul! Sono fisicamente superiori a noi come un gatto col topo, vi farebbero immediatamente a pezzi. Ma, per nostra sfortuna, solo io sono armato, quindi l’unica cosa che possiamo fare è nasconderci e io mi apposterò, tentando di distruggerli col mio frammentatore.»
Non disse loro che c’erano elevate possibilità che i karankatul avessero con sé dei deviatori energetici, che avrebbero reso la sua arma inutile. Né che, se anche fosse riuscito a eliminarli entrambi, un’astronave piena di quei mostri stava proprio a fianco alla loro. Ma decise di affrontare un problema alla volta.
Udirono un clangore metallico e una sirena prese a ululare, mentre il portello veniva aperto.
«Tenetevi forte!»
Fortunatamente, le tute avevano gli stivali magnetici.
L’aria nella sezione venne di colpo risucchiata verso il portello e tutto ciò che non era più che saldamente ancorato alla struttura la seguì: vi fu un’ondata di frammenti e attrezzi e uno degli uomini venne colpito con forza da una cassetta metallica di ricambi, che gli fece perdere l’aderenza al terreno. Per un attimo, Red Three rimase come sospeso in aria; quindi il vuoto lo chiamò a sé con violenza. Ma non lo raggiunse mai.
Non appena ebbe superato il portello un braccio enorme apparve nella loro visuale e, nel silenzio improvviso dell’assenza di atmosfera, tutti poterono vedere il bacino dell’uomo separarsi di netto dal costato in una pioggia di sangue sospeso. Una lama larga e spessa, lorda di rosso, divenne visibile quando i due tronconi di Blue Three galleggiarono fuori dalla stazione e il primo karankatul fece la sua comparsa.
A vederlo così, coperto da una sorta di scafandro dall’aria stranamente antiquata, appariva come un uomo. Aveva due braccia, due gambe, una testa e le sue fattezze non erano visibili al di sotto del metallo opaco, ma quando posò il primo piede all’interno della sezione tutti loro avvertirono la vibrazione di qualcosa di molto più pesante di un normale uomo.
«Via!» urlò semplicemente Cal via radio.
Rallentati dall’assenza di gravità, gli uomini si sparpagliarono il più velocemente possibile. Cal rimase al centro del corridoio, con il frammentatore particellare in mano. Si sentiva stranamente calmo, ora. Sopra la sua testa, un lampeggiante rosso era in funzione, a segnalare la decompressione della sezione. Anche la sirena era ancora attiva, ma non più udibile.
Il karankatul fece alcuni passi avanti, con la lama ancora stretta nella mano. Loro preferivano le armi corpo a corpo. Non che non ne possedessero a lungo raggio, anche più letali e sofisticate di quelle umane, ma qualcosa nella loro natura di guerrieri li portava a prediligere il contatto fisico. Alla cintura, infatti, Cal poté vedere una di quelle strane spirali che lanciavano raggi mortali, la cui meccanica gli sfuggiva.
In quel momento Red Seven, il gigante con la testa a lattina, apparve da una stanza appena a lato del mostro. Pazzo! Lo aveva avvertito di non farlo!
Il visore del casco del karankatul non era solamente frontale come i loro, ma abbracciava l’intera circonferenza dello stesso, perché gli alieni avevano gli occhi posti lateralmente, all’incirca laddove gli esseri umani avevano le orecchie. Per quanto Red Seven superasse probabilmente i due metri e venti di statura, sembrava un ragazzino di fianco al mostro, cui non arrivava nemmeno alla spalla. Cal sapeva che un karankatul poteva pesare in media duecentocinquanta chili.
Red Seven vibrò un colpo con la tuta, facendo vacillare il mostro e scalfendogli la corazza, ma non ottenne nulla di più. Il karankatul lo afferrò per le braccia e con una rapida torsione gliele disarticolò. Dalla tuta sprizzarono scintille e fiotti d’aria e umidità ne scaturirono in un breve getto, mentre il vuoto penetrava nella tuta dell’uomo. Il karankatul alzò la testa verso l’alto, forse in un grido di bestiale vittoria, e staccò di netto le braccia a Red Seven. Dai moncherini sprizzarono getti vermigli che risalirono a parabola verso il soffitto e poi si sparsero irregolarmente per l’ambiente, centrifugati dalla rotazione della stazione spaziale.
Cal puntò il frammentatore, lo armò e fece fuoco. Era un’arma complessa, inadatta agli attacchi rapidi, e furono necessari quasi quattro secondi perché la sequenza di luci che ne segnalavano lo stato si accendessero. Ma nel vuoto anche i karankatul erano lenti e quando il mostro si trovava ancora a due metri da lui un’onda luminosa si sprigionò dalla punta dell’arma e l’alieno esplose in un nugolo di particelle, come una nuvoletta di polvere, che si sparse per l’ambiente con pigra lentezza.
Il secondo karankatul apparve in quel momento a riempire il portello e Cal riattivò la sequenza perché il frammentatore facesse fuoco, ma questo volta fu inutile. L’alieno, avendo assistito alla fine del suo compagno, non si fece cogliere impreparato e attivò il deviatore d’energia della propria tuta. Quando l’onda luminosa dell’arma lo investì si spaccò come acqua attorno a uno scoglio e una porzione della stazione spaziale venne disintegrata, formando un anello frastagliato attorno al karankatul. Per un istante non accadde nulla; poi, incapace di resistere alla rotazione dopo aver subito simili danni, una porzione della sezione si staccò di netto e sbandò lateralmente, trascinando via il karankatul che ancora vi si trovava e sparendo rapidamente alla vista.
Sudato fradicio per la tensione, con l’adrenalina in circolo che lo faceva tremare, Cal inspirò profondamente e fu di colpo conscio delle voci che gli risuonavano nel casco.
«Comandante!»
«Comandante!»
«…succede…»
«…perso…»
«…sponda comandante Zhou!»
Scosse la testa per schiarirsi le idee e rispose in rapida sequenza sia al generale che ai suoi uomini.
«Signore, siamo stati accostati da un incrociatore karankatul. Ha seguito la prassi, spedendo una capsula con due alieni a bordo. Sono riuscito a neutralizzare entrambi, anche se a costo di danni irreparabili alla sezione che avevamo riattivato, ma la cosa importante, adesso, è che tra breve i suoi compagni attaccheranno.
Uomini, calma! Il pericolo è solo momentaneamente ritardato. Abbiamo già perso due di noi. Dobbiamo uscire nel vuoto e raggiungere il più velocemente possibile un’altra sezione. L’astronave dei karankatul è esplorativa, non da guerra, quindi le armi che monta non sono tali da permettere loro di distruggere la Aefestus. Saranno costretti a scendere personalmente sulla stazione spaziale. La nostra unica possibilità è raggiungere una scialuppa e scendere sul pianeta, o siamo tutti morti.
Blue Six, Red Four, abbandonate immediatamente la nostra astronave e raggiungeteci. È troppo visibile sullo scafo della stazione, di quel colore bianco. Probabilmente i karankatul l’attaccheranno immediatamente.»
Non fece in tempo a terminare la frase che una violenta vibrazione scosse la sezione danneggiata e poterono vedere la loro astronave, spaccata come un guscio di noce, sfrecciare accanto a loro come una cometa, con tanto di coda di gas in fuga dalla cabina.
«Merda, merda, merda!»
Un’interferenza gli ferì le orecchie e vide anche due uomini accanto a lui afferrarsi il casco per la sorpresa e il fastidio. Una comunicazione karankatul, fatta di schiocchi, fischi e gorgoglii venne comunicata loro, ma naturalmente era incomprensibile ed era solo proforma. I bellicosi nemici dell’umanità annunciavano sempre un attacco, una dichiarazione di guerra in piena regola.
«Muoviamoci,» disse ai suoi uomini con voce più calma possibile, «dobbiamo fare in fretta.»

 

Aleani

 

La riunione era terminata. La decisione presa. Il popolo azzurro, il suo pianeta e il suo intero sistema erano in pericolo. Ma non c’erano sufficienti informazioni sulle dinamiche della supposta guerra e non si capiva come i millefacce si incastrassero nel quadro di conflitto tra gli umidi e quelli che ridono. Quindi uno di loro sarebbe andato sul campo di battaglia, se così si poteva chiamare, e avrebbe osservato, compreso e, prima di tornare a spiegare la situazione ai propri simili, avrebbe fatto il possibile per mettere i bastoni fra le ruote ai signori della guerra.
Il popolo azzurro non usava costringere od ordinare. Alcuni volontari si fecero avanti per la missione e Andrtül fu la scelta più logica. Era giovane, piena di energia, ma allo stesso tempo non era una novella. Era particolarmente ricettiva alle energie astrali – come aveva dimostrato nelle gare di cavalcata delle radiazioni solari contro i suoi amici – ed era curiosa, molto curiosa, ma allo stesso tempo cauta.
L’intero popolo azzurro, attraverso radici, venti, spore e creature volanti lanciò nell’etere il proprio saluto a colei che doveva salvare la loro esistenza. Coloro che si erano riuniti in concilio rinunciarono a parte della propria energia e gliela cedettero, per aiutarla ad acquistare una maggior spinta.
Andrtül si sollevò nell’aria, oltrepassò i pollini, i venti superiori, le nubi e vide il cielo virare dall’abituale ocra al nero mentre, accelerando sempre più man mano che saliva, superava gli ultimi strati dell’atmosfera e giungeva nel vuoto. La sua struttura superficiale si irrigidì e indurì al gelo siderale, ma lei aveva una certa esperienza di viaggi nello spazio e non le fu difficile riacquistare una consistenza più nebulosa. Si compattò il più possibile, concentrando la sua energia nel minor spazio possibile, e avvertì l’ulteriore accelerazione che ciò causava. Ma non era abbastanza. Il pianeta dietro di lei, ricco di tinte bianche, rosse e azzurre rimpicciolì rapido alle sue spalle, ma ancora le faceva ombra.
Finalmente divenne talmente piccolo da non riuscire più a celare alla vista Štah, l’accecante sole bianco del suo sistema. Immediatamente l’enorme forza della stella la investì sotto forma di una miriade di radiazioni e lei si appiattì un poco, in modo da offrire una maggior superficie senza divenire troppo grande e accogliere gli strali benefici di Štah. Il vento solare, impetuoso, spaventoso e magnifico nella sua potenza, la investì e la trascinò con forza come una corrente inarrestabile con una nave, facendola accelerare sempre più.
Passò del tempo. Andrtül non dormì, anche se avrebbe potuto, ma osservò il sistema solare scorrerle attorno. Vide Ottr, il pianeta sempre in ombra a causa dell’altissimo numero di corpi che gli gravitavano attorno, schermandone la maggior parte della superficie dal sole; Eltesest, un gigante con otto anelli ben distinti simile a una tavolozza turbinante di colori e Gi, minuscolo e scintillante di ghiaccio. Vide rocce immense navigare nel vuoto e alcuni minuscoli frammenti scintillanti, forse minerali, che vagavano nello spazio fino a incontrare una gravità troppo potente perché la spinta che avevano permettesse loro di sottrarvisi.
Giunse, infine, al limitare del proprio sistema e la prima cosa che avvertì fu la vibrazione delle navi degli umidi. Elettricità, vita, elettromagnetismo, combustione, segnali radio, laser, radiazioni… tutto ciò era l’inconfondibile impronta di quegli ostinati guerrieri che il popolo azzurro non comprendeva, che continuavano a pattugliare per motivi a loro sconosciuti i limiti del sistema solare. Probabilmente ritenevano che, qualunque fosse la forza che li aveva sino a quel momento annientati, la sua estensione non potesse giungere sino a lì. La verità era che il popolo azzurro non aveva interesse a distruggerli, se si tenevano sufficientemente lontani.
La sua traiettoria passava proprio attraverso una di quelle navi di metallo e Andrtül non aveva intenzione di rallentare per colpa loro. Quindi, semplicemente, vi passò attraverso. Il tutto accadde in meno di un centesimo di secondo, ma lei colse il cuore pulsante della nave, simile a un sole in miniatura, la vita che baluginava attraverso i gusci degli umidi, il rombo delle macchine, le vibrazioni dell’aria causate dai suoni che il tutto provocava. Quindi fu oltre, inconsapevole che, alle sue spalle, le macchine si fermavano, le luci si spegnevano e il cuore della nave esplodeva. Avvertì una puntura alle spalle, causata dall’esplosione del nucleo, ma non vi prestò attenzione. Le radiazioni che viaggiavano nello spazio erano troppe, per analizzarle tutte.
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[ecko_toggle style=”solid” state=”closed” title=”Capitolo 8“]Gli esseri umani sbagliavano, a chiamarli karankatul. Ma il loro errore era comprensibile.
Esso era, infatti, il nome del loro pianeta natale, e tra di loro si chiamavano karanka, così come gli uomini si definivano persone. Ma il loro grido di battaglia, che i superstiti alle incursioni udivano ancora nei loro sogni fino a svegliarsi urlando, era appunto “Karankatul”. Era come un’invocazione al proprio pianeta, una richiesta di forza e protezione, per quanto una simile superstiziosità mal si sposasse con l’immagine di una società dalla tecnologia avanzatissima che gli umani si erano raffigurati.
La parola, in realtà, non era propriamente karankatul, ma la lingua schioccante, gutturale e ricca di fischi e rumori vischiosi degli alieni era irripetibile e quello era il suono che più gli si avvicinasse.
L’umanità sperimentava per la prima volta le catapulte, quando i karanka effettuarono il loro primo viaggio nello spazio, mandando un equipaggio di un unico individuo su uno dei due satelliti del pianeta. Il pilota morì nel tentativo, ma la via era stata aperta. Agli inizi del ventesimo secolo terrestre, i karanka avevano già lasciato il proprio sistema solare e l’esplorazione dello spazio era la nuova frontiera per il popolo alieno. Quasi mille anni dopo, quando la Triple W cominciava a considerare l’installazione di strutture scientifiche e minerarie su pianeti di altri sistemi, i karanka avevano già colonizzato oltre venti astri adatti alla vita.
La guerra.
Per i karanka – e in questo erano molto simili agli uomini – la guerra era la principale ragione che li spingesse a qualunque azione. Al contrario degli esseri umani era anche l’unica, era il fine, non il mezzo.
Guidati da una mentalità guerriera e da una superficiale idea di predominio non organizzato della propria razza, i karanka avevano abbandonato il proprio pianeta natale dopo averlo reso invivibile e si erano sparsi come una pestilenza dovunque potessero sopravvivere. Quasi tutti i pianeti che avevano colonizzato erano abitati più che altro da animali, ma le poche forme di vita superiori che avevano incontrato erano state rapidamente estinte. Nessuno, a ogni modo, aveva raggiunto il livello tecnologico, scientifico o militare degli invasori quando questi erano atterrati per conquistare e uccidere. La vittoria era sempre stata semplice.
I karanka, insoddisfatti da quegli scontri troppo facili, avevano continuato a espandersi sempre di più, fino a che due ostacoli si erano frapposti al loro cammino. Da una parte, avevano incontrato un sistema in cui non riuscivano a penetrare. Le loro navi, semplicemente, deflagravano al suo interno, come se una forza invisibile le attaccasse una volta superata una linea invisibile. Avevano perso centinaia di soldati e di astronavi, durante quei tentativi, ma non avevano ancora compreso quale fosse la ragione della loro difficoltà. Dall’altra, si erano scontrati contro i morbidi.
Li chiamavano così: i morbidi. Non avevano il robusto guscio dei karanka, erano piccoli e flaccidi e per questo gli alieni li disprezzavano. Non avevano nemmeno mezzi paragonabili ai loro. Eppure ostinatamente, ferocemente, avevano continuato a resistere, a combattere e, talvolta, avevano anche riportato delle vittorie. Questo suscitava rispetto nei karanka, che perciò avevano concluso di aver incontrato il fantomatico nemico che da secoli andavano cercando nella galassia. Per questo provavano grande gioia. E con il fanatismo e la violenza che li contraddistinguevano si erano gettati in una guerra lunga, lunghissima contro l’umanità, puntando al solo scopo di sterminarla fino all’estinzione. Non era importante quanti karanka sarebbero morti né quanto tempo sarebbe stato necessario.
L’unica cosa importante era la guerra.

Il karan-ak, ovvero il karanka di grado più elevato su di un’astronave, osservava gli schemi che gli analisti di bordo gli avevano portato alcuni minuti prima. Per quanto lui fosse principalmente un guerriero, capo di un gruppo di soldati, aveva un’infarinatura scientifica sufficiente a fargli comprendere ciò che stava guardando, così com’era richiesto dal suo ruolo di primaria importanza. Gli schemi rappresentavano, nello specifico, la radiazione emessa dalle navi di quella che loro definivano “linea di controllo”, ovvero uno schieramento disposto lungo il confine invisibile che divideva loro dalla zona pericolosa, in cui un’energia misteriosa faceva deflagrare immediatamente qualunque mezzo vi penetrasse.
Fino a 12.002-4-11-3-3-442 i livelli della nave quarantatré erano stabili. A 12.002-4-11-3-4-955 un picco esterno, simile alla scarica di un fulmine, era apparso negli schemi. A 12.002-4-11-3-4-978 era già lontano e l’astronave era esplosa. Il fenomeno era del tutto simile a quello che coinvolgeva le navi che osavano avventurarsi nel sistema solare proibito, anche se su scala decisamente inferiore in termini di energia e ampiezza della radiazione, ma non era mai accaduto che giungesse tanto lontano. La cosa strana, inoltre, era che aveva coinvolto un unico mezzo, nonostante fosse a meno di un decimo di parsec da altri due ai suoi fianchi.
Il karan-ak, il cui nome – così come potrebbe udirlo un umano – era Huidluist, chiuse gli schemi e li archiviò, confuso. E irato. La confusione era debolezza. Un guerriero karanka non conosceva debolezza. Per dimostrare al suo equipaggio e ai karan-ak delle altre navi di non essere un debole, avrebbe dovuto prendere una qualche risoluzione. Ma quale? Da un punto di vista militare, ciò che era accaduto poteva essere equiparato a un attacco, durante il quale una qualche arma aveva scagliato una grande massa d’energia contro un’astronave, facendone collassare il nucleo. Eppure, in fondo, Huidluist non era convinto di questa spiegazione.
Emise un fischio acuto e l’ufficiale di servizio, appena fuori dalla sua cabina, entrò e fece il saluto, battendosi un pugno contro il torace corazzato e cavandone un rimbombo cavernoso.
«Voglio immediatamente la velocità di crociera del fascio di energia che ha colpito l’astronave quarantatré.»
Pochi minuti dopo, l’ufficiale fu di ritorno con un nuovo schema e il karan-ak lo esaminò con attenzione. Impossibile. Secondo gli analisti il proiettile, o qualunque cosa fosse, viaggiava a una velocità di crociera di quasi trentadue parsec al giorno – in unità di misura umana, circa quaranta parsec in ventiquattrore – ovvero la velocità della più potente nave karanka in assetto di curvatura cronotopica. La loro, che era solamente una nave-sentinella, raggiungeva a malapena la metà di quella velocità.
Gorgogliando per il disappunto, Huidluist lesse e rilesse i dati, che per quanto era in grado di capire apparivano corretti. Un fotone, rispetto al fascio d’energia che era passato tra di loro, era lento in maniera insopportabile.
Ben deciso a non mostrarsi debole, il karan-ak prese una risoluzione. Attivò il sistema di comunicazione e trasmise un messaggio alla flotta più vicina, che si trovava a due sistemi di distanza, impegnata a colonizzare un pianeta adatto alla vita. Il contenuto del messaggio era il seguente: fascio di energia, probabile scia residua di mezzo di classe elevata, causato deflagrazione nave. Velocità stimata mezzo trentuno virgola otto parsec giorno. Si richiede invio due incrociatori classe elevata per individuare punto arrivo mezzo alieno sconosciuto.
A quel punto trasmise anche le coordinate che indicavano la traiettoria del fascio, che faceva supporre un andamento rettilineo – il più rapido per spostamenti su grandi distanze, senza deviazioni o rallentamenti – usando come riferimento il pianeta Karankatul, com’era prassi. Quindi, soddisfatto del proprio operato e di aver sia adempiuto al suo dovere che scaricato la responsabilità al karan-ak della flotta, tornò ai suoi incarichi.

 

Umani

 

Ai non sentiva Cal da quasi due settimane, ormai. Aveva provato a telefonargli diverse volte, sempre da apparecchi di comunicazione diversi, ma non aveva mai ricevuto risposta. Inoltre non frequentava lezioni da altrettanto tempo e la sua compagna di stanza al dormitorio, sicuramente, doveva pensare che fosse morta.
Per queste ragioni – e anche per uscire per un po’ dalle viscere della Humanufacture – chiese un permesso ai suoi superiori, che considerarono le ragioni valide e lo concessero. Quindi emerse dalla terra nelle vie sovraffollate di Nuova Hong Kong.
Il professor Eijiro si era ambientato rapidamente e lei era felice che alla causa si fosse unito un simile luminare, anche se dal carattere discutibile. La Triple W aveva le ore contate, secondo lei e altri giovani entusiasti, che facevano parte dell’organico Humanufacture per l’unica ragione di voler distruggere il monopolio dell’azienda interplanetaria, che troppo a lungo aveva influenzato – politicamente, economicamente ed eticamente – la società.
Per prima cosa, si diresse verso casa di Cal. Salì sull’ascensore panoramico esterno e raggiunse il piano selezionato. I corridoi erano illuminati e un gatto solitario passeggiava pigramente sulle piastrelle lucide, attivando le luci automatiche. I condomini avrebbero pianto, al momento di pagare l’amministrazione. Raggiunse la porta di Cal e suonò ripetutamente, ma dopo diversi minuti concluse che in casa non dovesse esserci nessuno. Allora, punta da un’idea improvvisa, telefonò al servizio medico centralizzato, chiedendo se un certo Cal Zhou fosse loro ospite, ma le risposero negativamente. Con una vena di fatalismo, telefonò anche ai servizi mortuari, ma con suo sollievo anche loro risposero negativamente.
Piuttosto piccata per il fatto di non essere mai stata richiamata e che fosse così difficile trovare Cal, si diresse al proprio dormitorio, assillata da pensieri scuri. Quando aprì la porta con la propria copia della chiave, trovò la sua compagna – Feng – immersa nella lettura di un trattato di medicina molecolare.
«Ai! Stai bene?»
La ragazza abbandonò il libro e le saltò al collo con l’entusiasmo che le era caratteristico. Fortunatamente era piccola e magra, o l’avrebbe buttata a terra.
«Pensavo fossi morta, pensavo ti fosse successo qualcosa di brutto!» continuò Feng baciandola sulle guance. Era la persona più espansiva che Ai avesse mai conosciuto, ma le voleva bene. In quel momento, si sentì in colpa per aver lasciato credere all’amica di essere nei guai.
«Sto bene, Feng… ahi, lasciami! Sto bene, scusa se non mi sono fatta viva. Ho avuto… dei problemi…»
Feng la lasciò andare e la squadrò con occhio critico.
«Hai un aspetto terribile. Cosa ti è successo?»
«Ah, grazie mille.» rispose con sarcasmo Ai, sedendosi sulla sua branda.
«Non fare la spiritosa. Hai delle occhiaie da far spavento e tutta la pelle sulla fronte secca. Aspetta…»
Prese a frugare in un cassetto e Ai alzò gli occhi al cielo, ben sapendo che Feng avrebbe tirato fuori una delle sue immancabili creme rigeneranti.
«Ecco qua!» esclamò infatti la ragazza, «Estratto di aloe caraibica con aggiunta di olii essenziali. Perfetto per la pelle del viso.»
«Seriamente, Feng, non ha importanza…»
La ragazza nemmeno l’ascoltò, versandosi un po’ di crema oleosa su di un palmo e schiaffandoglielo in fronte.
«Ahi! Ma…»
«Zitta e ferma lì! Lasciami fare!»
Ai strinse le labbra, ma obbedì.
«È per quello stupido ragazzo, vero?» sbottò a un certo punto Feng.
Ai sobbalzò e la crema le finì sul naso.
«Ferma! Vedo che ci ho azzeccato, allora.»
«No, no, io…»
«Non raccontarmi palle. So tutto.»
Ai tacque, presa alla sprovvista. Sapeva tutto? Come?
«Sono venuti qua due uomini, mentre non c’eri,» continuò Feng prendendo un’altra ditata di crema dal barattolo, «con vestiti grigi, data-cravatte, occhiali all’ultima moda. Eleganti, cortesi. Sembravano usciti da un vecchio film.»
Ai sentì trillare un campanello d’allarme nella testa, ma continuò a tacere.
«Ti cercavano. Dovevano parlarti, ma non mi hanno voluto dire di cosa. Però ero certa che si trattasse di quel Cal. È un ex-militare, no? Di sicuro ha a che fare con i servizi segreti o che so io.»
Possibile? Era per questo che Cal era irrintracciabile? L’avevano prelevato? E perché? Forse avevano scoperto quello che faceva lei e lo volevano usare per ricattarla? Cominciò a provare una certa agitazione, ma si dominò.
«E sono più tornati?»
«Ogni giorno, durante la prima settimana,» rispose Feng con un sorriso storto, «poi hanno smesso.»
Qualcuno bussò alla porta della camera e Feng si pulì le mani per andare ad aprire. Ai ringraziò mentalmente chiunque si trovasse dall’altra parte dal battente, perché la crema aveva un odore d’erbe penetrante che le faceva girare la testa.
«Buonasera, signorina Ma. Vorremmo parlare con la signorina Kobayashi.»
«Oh, come facevate a sapere… un momento, per favore.»
La porta rimaneva nascosta rispetto alla branda da un armadio a scomparsa che, in quel momento, era stato tirato fuori. Ai, da dov’era seduta, non poteva vedere i visitatori, ma di certo loro potevano scorgere le sue gambe e i suoi piedi spuntare.
«Chi è?» chiese con voce tremante.
«Quei signori che ti dicevo.»
Ai si alzò, sentendosi le gambe come di gelatina, e andò alla porta. Due uomini, un nero e un orientale vestiti in maniera identica, con completi grigi ed eleganti e accessori all’ultima moda, le sorrisero in sincrono. Non c’erano dubbi su chi li avesse mandati: la Triple W. Come avevano fatto a scoprirla?
«Buonasera, signorina Kobayashi. Perdoni il disturbo, ma sono due settimane che la cerchiamo per una comunicazione importante.»
Uno dei due lanciò un’occhiata neutrale a Feng.
«Una comunicazione… riservata.»
«Dite pure, lei è un’amica.»
Si rese conto che la sua voce suonava inusualmente stridula e pregò che i due uomini non se ne accorgessero.
«Come desidera. Siamo stati incaricati di comunicarle che Cal Zhou, nella cui scheda personale lei è indicata come fidanzata ufficiale, è stato reclutato per una missione segreta e rimarrà assente dalla Terra per diversi mesi.»
Ai sentì le gambe che le cedevano, in parte per il sollievo di sapere che Cal stava bene e in parte per quello derivante dal non essere stata scoperta. Feng parve accorgersene e la prese a braccetto, esibendosi in un sorriso a mille denti.
«Certo Cal poteva dirglielo di persona.» commentò con falsa cortesia.
«Non poteva. Era stato precisamente istruito sulla riservatezza della questione. L’abbiamo rassicurato che avremmo avvertito noi i suoi cari dell’assenza. Ovviamente, non possiamo darvi alcuna informazione riguardo alla missione. Sappiate solo che ha prontamente accettato l’offerta di lavoro e che farà ritorno tra – stimiamo – circa sei mesi.»
Sei mesi! Un tempo lunghissimo. Ma se aveva trovato un lavoro, forse sarebbe riuscito a stare meglio e a mettere da parte qualche soldo. Ai si costrinse a sorridere.
«Siete stati molto gentili, vi ringrazio.»
I due si esibirono nuovamente in quel sorriso sincronizzato.
«Ma si figuri.»
«Un dovere e un piacere.»
«Vi auguriamo buona giornata, signorine.»
«Arrivederci.»
«Buona serata.»
«Anche a lei.»
La porta si chiuse e i due si allontanarono rapidi lungo il corridoio del dormitorio. Non sorridevano più.
«Due intere settimane senza essere rintracciabile.»
«Inaudito. Non mi era mai successa una cosa del genere.»
«Dobbiamo avvertire Landmaker. Sicuramente vorrà che la pediniamo.»
«Questo è certo. Dobbiamo scoprire dov’è possibile nascondersi ai nostri sistemi di ricerca per tutto quel tempo.»

 

Aleani

 

L’entità era vicina, la sentiva chiaramente. Per un attimo Andrtül si chiese se anch’essa avesse le sue capacità percettive e potesse individuarla, ma era una considerazione del tutto inutile. Stava per affiancarla.
Non riuscì a vederla fino all’ultimo istante, quando – per un centesimo di secondo – la affiancò e superò. Era una massa bulbosa, opaca, che pareva quasi palpitare di vita propria. Non assomigliava a una nave degli umidi e non ne aveva mai vista una di quelli che ridono. Non le ricordava nemmeno quella di uno dei popoli oramai estinti, la cui memoria era impressa dalla nascita nella sua mente. Se non era dei millefacce, si trattava di qualcosa di inedito, mai incontrato o percepito prima dal popolo azzurro.
Meno di un secondo dopo l’entità era lontana dietro di lei. Si spostava decisamente più lentamente di Andrtül e, almeno per quel che poteva avvertire lei, non pareva avere alcuna scia propulsiva. Non emetteva radiazioni, né onde, solamente quella sensazione di una forte vitalità, ma per il resto non differiva da un qualunque asteroide vagante, come un corpo lanciato nello spazio che avanzasse per inerzia nel vuoto.
Andrtül schizzò fuori anche da quel sistema, scorrendo rapida su di una meteora ferrosa e attraversandone poi uno sciame come fosse stato fatto d’aria. La strada da percorrere era ancora molta.

 

Umani

 

Grazie al potenziamento dato dalle tute, Cal e altri cinque uomini insieme riuscirono a ruotare il portello stagno che divideva la loro sezione – oramai distrutta e priva di energia – dalla sala di passaggio alle altre. Non di molto, in realtà, ma quanto bastava per permettere loro di passare dall’altra parte uno alla volta. Aveva già perso quattro soldati in pochi minuti e aveva tutta l’intenzione di portare gli altri diciassette al sicuro sulla luna. E anche se stesso.
La sala di passaggio era sferica ed essi ne percorsero agevolmente le pareti con gli stivali magnetici o, data l’assenza di gravità, sarebbe stato piuttosto complicato spiegare al gruppo inesperto che lo seguiva come destreggiarsi in tre dimensioni nel vuoto. Cal scelse il portello speculare a quello che avevano lasciato, il più diretto per raggiungere la sala di comando che, per loro sfortuna, si trovava al centro della stazione.
Fu in quel momento che la prima scarica di plasma colpì la Aefestus.
La nave karanka non aveva la potenza di fuoco per distruggere una stazione spaziale di quelle dimensioni, su questo Cal aveva perfettamente ragione. Ma era comunque in grado di colpire e danneggiare gravemente la struttura e, dato l’esito che aveva avuto l’invio dei due esploratori standard, aveva lanciato la dichiarazione di guerra e aveva cominciato a roteare attorno all’enorme massa metallica, sparandovi contro a casaccio. Uno dei missili al plasma andò a colpire la stanza di passaggio, squarciandola, e tutta la stazione tremò sotto l’attacco.
Gli stivali magnetici degli uomini non erano in grado di sopportare una vibrazione di quell’entità e si staccarono semplicemente dalla superficie, lasciandoli a galleggiare nell’assenza di gravità. Cal, ben allenato a quel tipo di situazione, si spinse rapido verso il portello e vi si aggrappò. Da solo non poteva però fare alcunché e cominciò a incitare a gran voce i suoi compagni che, disorientati, sbandavano qua e là nel tentativo di capire da che parte fossero girati.
«Usate i retro propulsori per stabilizzarvi! Dovete stabilizzarvi!»
Le sue parole venivano fagocitate dalle urla e dalle imprecazioni degli uomini, che roteavano su loro stessi in tutte le direzioni e vedevano il mondo girar loro attorno, incapaci di governare per bene la tuta e privi dell’allenamento e della prontezza del marine.
Mentre nella sala di passaggio regnava il caos la nave karanka, muovendosi con una rapidità e precisione che avrebbe suscitato l’invidia dei migliori ingegneri terrestri, schizzava da un lato all’altro della stazione senza cessare il fuoco, fermandosi di colpo ed eseguendo angoli a novanta gradi anziché curve in una maniera che fisicamente si sarebbe ritenuta impossibile, anche considerata l’elevatissima velocità di crociera a cui viaggiavano attorno alla luna.
«Karan-ak,» disse uno degli addetti alle scansioni, «li abbiamo trovati.»
Da molto tempo i karanka, che erano a sangue freddo, si erano resi conto di quanto i morbidi fossero visibili nello spazio a causa della loro temperatura corporea e avevano installato rilevatori termici su tutte le loro navi.
«In stallo a distanza di sicurezza dall’area selezionata. Fuoco.»
La nave schizzò all’indietro rispetto alla Aefestus, si assestò alla velocità di crociera della stazione spaziale e cominciò a sparare unicamente sulla sezione di passaggio.
All’interno della sala tutto prese a tremare con violenza e ampie porzioni di scafo cominciarono a creparsi e distaccarsi.
«Karan-ak! La nostra potenza di fuoco è insufficiente! Il danno non è elevato!»
«Mirate alle estremità. Distaccate quel guscio vuoto dal resto della stazione.»
La nave karanka corresse la mira e colpì con spaventosa precisione la giunzione tra la sezione di passaggio e il resto della nave, separandole in pochi istanti. Così facendo la sezione ruotò su se stessa, esponendo un fianco maggiormente danneggiato.
«Fuoco nella breccia!»
I missili al plasma saettarono, silenziosi e incandescenti, nel vuoto. Si infilarono nella spaccatura della sezione, spezzandola in due con un bagliore accecante.
La nave karanka rimase, relativamente immobile, laddove aveva fatto fuoco. Gli scanner passarono sui frammenti, resi roventi dal plasma.
«Statistiche?» chiese il karan-ak.
«C’è il sei percento di probabilità che vi siano dei superstiti.»
«A ogni modo, se anche ve ne fossero, staranno galleggiando nello spazio. La nave è morta?»
«Sì, karan-ak. Gli strumenti segnalano una completa assenza di energia.»
«Bene. Continuiamo sulla nostra rotta.»
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